SENTENZA
N. 1
ANNO
2002
REPUBBLICA
ITALIANA
IN
NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA
CORTE COSTITUZIONALE
composta
dai Signori:
-
Cesare RUPERTO Presidente
-
Massimo VARI Giudice
-
Riccardo CHIEPPA "
-
Gustavo ZAGREBELSKY "
-
Valerio ONIDA "
-
Carlo MEZZANOTTE "
-
Fernanda CONTRI "
-
Guido NEPPI MODONA "
-
Piero Alberto CAPOTOSTI "
-
Franco BILE "
-
Giovanni Maria FLICK "
ha
pronunciato la seguente
S
E N T E N Z A
nei
giudizi di legittimità costituzionale del combinato disposto degli
artt.739, secondo comma, e 136 e del combinato disposto degli
artt.739, secondo comma, e 741 del codice di procedura civile;
dell'art. 336, secondo e terzo comma, del codice civile; degli artt.
737, 738 e 739 del codice di procedura civile e dell'art. 336 del
codice civile, promossi con ordinanze emesse il 18 dicembre 2000
dalla Corte di appello di Torino, sezione per i minorenni, sul
reclamo proposto da M. D., iscritta al n. 163 del registro ordinanze
2001 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
n. 11, prima serie speciale, dell'anno 2001 e il 20 dicembre 2000
dalla Corte di appello di Genova, sezione per i minorenni, sul
reclamo proposto da C. G., iscritta al n. 240 del registro ordinanze
2001 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
n. 14, prima serie speciale, dell'anno 2001.
Visto
l'atto di costituzione di C. G.;
udito
nella camera di consiglio del 24 ottobre 2001 il Giudice relatore
Franco Bile.
Ritenuto
in fatto
1.
- Con l’ordinanza iscritta al n. di ruolo 163 del 2001,
pronunciata il 18 dicembre 2000 e pervenuta alla Corte il 19
febbraio 2001, la Corte d’appello di Torino, sezione per i
minorenni - nel corso del procedimento di reclamo introdotto dalla
madre di un minore avverso il decreto con cui il Tribunale per i
minorenni di Torino aveva dichiarato, ai sensi degli artt. 330, 333
e 336 del codice civile, la decadenza del padre dalla potestà
parentale, e disposto, previo allontanamento dalla madre affidataria
ex art. 317-bis del codice civile, l’affidamento
familiare del minore a cura del servizio sociale -, ha sollevato una
serie di questioni di legittimità costituzionale nei termini di
seguito indicati.
Il
rimettente riferisce che il Tribunale per i minorenni aveva nel
contempo, su richiesta del P.M., aperto un procedimento per la
declaratoria della decadenza del padre dalla potestà genitoriale, e
che il giudice delegato aveva convocato il solo padre del minore e
non anche la madre, ed acquisito informazioni dai servizi sociali ed
il parere del P.M., ed aveva poi emesso il decreto reclamato,
comunicato per esteso al P.M. ed al giudice tutelare, notificato per
esteso al servizio sociale e notificato nel solo dispositivo alla
madre.
Con
il reclamo la madre ha chiesto la dichiarazione di inefficacia o
inesistenza del decreto comunicatole senza motivazione, la
sospensione dell’applicazione del provvedimento, la dichiarazione
di non manifesta infondatezza delle questioni di legittimità
costituzionale degli artt. 133, 136 e 739 del codice di procedura
civile in riferimento agli artt. 2, 3, 13, 24 e 111 della
Costituzione, nella parte in cui prevederebbero che i provvedimenti
pronunciati in camera di consiglio dal tribunale per i minorenni e
reclamabili nel termine perentorio di dieci giorni siano comunicati
alle parti private limitatamente al dispositivo e non per esteso, ed
in ogni caso la riforma del provvedimento.
2.-
La Corte rimettente ritiene fra l’altro che la previsione del
secondo comma dell’art. 739 cod. proc. civ. (secondo cui il
provvedimento emesso in camera di consiglio è comunicato se dato in
confronto di una sola parte, o notificato se dato in confronto di
più parti) deve essere coordinata con il rilievo che i procedimenti
relativi alla potestà genitoriale sono considerati dalla dottrina
<<bilaterali o plurilaterali>>, onde il provvedimento
che li conclude dovrebbe essere interamente notificato alle parti ed
al P.M. ex art. 137 cod. proc. civ.. Tuttavia i tribunali per
i minorenni ed anche quello di Torino <<comunicano non l’intero
decreto ma solo il suo dispositivo, a mente dell’art. 136 cod.
proc. civ., consegnando il biglietto di cancelleria al destinatario
o disponendone la notifica da parte dell'ufficiale giudiziario, e
dalla data di questa comunicazione del dispositivo fanno decorrere
il termine perentorio di dieci giorni decorso il quale, in assenza
di reclamo, il decreto acquista efficacia ex art. 741, comma
1, cod. proc. civ.>>.
Questa
interpretazione - che la rimettente considera <<diritto
vivente>> - contrasterebbe:
a)
con l’art. 3, primo comma, Cost.: a1) in quanto non rispetterebbe
<<il principio di ragionevolezza>>, perché, mentre con
riferimento alla sentenza la comunicazione del solo dispositivo
avrebbe una sua ragione, in quanto servirebbe soltanto a mettere le
parti nella condizione di poter notificare la sentenza al fine della
decorrenza del termine breve di trenta giorni per l’impugnazione,
nel caso dei provvedimenti in discorso la comunicazione farebbe
decorrere essa stessa il termine di dieci giorni per il reclamo onde
sarebbe necessario conoscere il provvedimento nella sua interezza;
a2) in quanto realizzerebbe - arbitrariamente e senza una razionale
giustificazione - un trattamento differenziato rispetto alla
disciplina della notificazione d’ufficio integrale del decreto o
della sentenza di adottabilità, ex artt. 15, terzo comma,
16, secondo comma, e 17, terzo comma, della legge n. 184 del 1983;
b)
con l’art. 97, primo comma, Cost., perché risulterebbe leso il
principio del buon andamento dell’amministrazione;
c)
con l’art. 24, secondo comma, Cost., in quanto il termine di dieci
giorni per il reclamo, per la sua brevità, pur congruo a consentire
all’interessato l’attività di impugnazione, sarebbe invece
insufficiente, tenuto conto che l’interessato non potrebbe
utilizzarlo integralmente, dovendosi rivolgere alla cancelleria per
ottenere la copia del provvedimento: l’insufficienza sarebbe
particolarmente evidente nel caso in cui l’interessato dimori in
una regione diversa da quella della sede dell’ufficio giudiziario
o all’estero;
d)
con l’art. 111, secondo comma, Cost., per la violazione del
principio della parità delle parti, derivante dal fatto che il P.M.
riceverebbe comunicazione integrale del provvedimento e, quindi,
potrebbe esercitare il diritto di impugnazione conoscendone il
contenuto per l’intera durata del termine di reclamo, mentre la
parte privata avrebbe conoscenza di quel contenuto solo dal momento
in cui ne ottenga copia dalla cancelleria;
e)
con l’art. 111, sesto comma, Cost., in quanto la motivazione non
costituirebbe un fatto interno e dovrebbe essere portata a
conoscenza delle parti subito, mentre la conoscenza del solo
dispositivo si giustificherebbe esclusivamente ove sia previsto -
come per le sentenze - un meccanismo successivo di notifiche a cura
della parte più diligente.
f)
ed infine con l’art. 2 Cost.: questo parametro viene, peraltro,
evocato solo in dispositivo.
2.1.-
Sulla base di tali motivazioni la rimettente solleva la questione di
legittimità costituzionale dell’art. 739, secondo comma, cod.
proc. civ., <<in relazione all’art. 136 cod. proc. civ.,
nella parte in cui nel diritto vivente tali norme prevedono>>
<<la comunicazione del decreto assunto dal tribunale per i
minorenni nei procedimenti camerali ablativi o modificativi della
potestà genitoriale con la forma abbreviata del biglietto di
cancelleria, anziché la notificazione mediante consegna al
destinatario di copia per esteso conforme all’originale del
decreto nelle forme dell’art. 137 del codice di procedura
civile>>.
La
medesima questione viene prospettata anche con riferimento
<<al combinato disposto degli artt. 739, comma 2, e 741 cod.
proc. civ., nella parte in cui dispongono che nei procedimenti
camerali del tribunale per i minorenni ablativi e modificativi della
potestà genitoriale il termine di dieci giorni per proporre reclamo
e il termine di efficacia del decreto decorrano dalla comunicazione
del decreto con la forma abbreviata del biglietto di cancelleria,
anziché della notificazione mediante consegna al destinatario di
copia per esteso conforme all'originale del decreto nelle forme dell’art.
137 cod. proc. civ.>>.
Quanto
alla rilevanza della questione, la rimettente osserva che la
reclamante, avendo ricevuto soltanto la comunicazione del
dispositivo del provvedimento e non avendo potuto apprendere da tale
comunicazione le ragioni del medesimo, non avrebbe potuto preparare
nel brevissimo termine di dieci giorni previsto per il reclamo un
ricorso che tenesse conto dei motivi per i quali il figlio veniva da
lei allontanato e si sarebbe limitata a proporre la questione di
costituzionalità, senza poter sviluppare le difese di merito. Dopo
di che osserva di avere autorizzato <<in passato>>, in
situazioni simili, il rilascio alla parte reclamante di copia
integrale del decreto reclamato, e concesso alla stessa un termine
per completare con memoria le proprie difese. Ma alla rimettente
<<pare però giusto che, attesa la rilevanza della questione e
la frequenza con cui viene proposta dai difensori con i motivi di
impugnazione, sia la Corte Costituzionale a valutare se le attuate
modalità di comunicazione del solo dispositivo del decreto negli
accennati procedimenti siano addirittura costituzionalmente
illegittime>>.
3.-
La rimettente, inoltre, solleva d’ufficio una serie di altre
questioni, che investono il secondo e il terzo comma dell’art. 336
cod. civ..
La
prima questione investe l’art. 336, secondo comma, nella parte in
cui non prevederebbe che nei procedimenti camerali ablativi o
modificativi della potestà genitoriale sia sentito anche il
genitore contro cui il provvedimento non è richiesto. Ad avviso
della rimettente, questa mancata previsione aveva un significato
anteriormente alla riforma del diritto di famiglia del 1975, quando
un solo genitore (di norma il padre) era titolare della potestà, ma
non si giustificherebbe più in un regime di potestà congiunta e
paritaria, in cui alla decadenza o alla limitazione della potestà
di un genitore corrisponde una maggiore pienezza della potestà
dell'altro genitore.
La
limitazione dell’audizione ad un solo genitore, violerebbe: a)
l’art. 3, primo comma, Cost., per lesione del principio di
eguaglianza fra i genitori, e per irragionevolezza della diversità
rispetto alla disciplina di cui all’art. 10, quinto comma, della
legge 4 maggio 1983, n. 184, che, per i procedimenti limitativi o
sospensivi della potestà nel corso del procedimento di
adottabilità, impone l’audizione preventiva di entrambi i
genitori e, se c’è, del tutore; b) l’art. 24, secondo
comma, Cost., per lesione del <<diritto di autodifesa, con
facoltà di farsi assistere da un difensore, del genitore non
sentito e, quindi, neppure informato della procedura>>; c)
l’art. 30, primo comma, Cost., per l’esclusione di un genitore
dalla possibilità di intervenire in un procedimento relativo ai
doveri e diritti dell’altro genitore di mantenere, istruire ed
educare i figli; d) l’art. 111, primo e secondo comma,
Cost., per l’esclusione di <<un contraddittorio tra le
parti, i due genitori in proprio e quali legali rappresentanti del
figlio, in condizioni di parità, davanti ad un giudice terzo ed
imparziale>>; e) l’art. 18, comma 1, della
Convenzione sui diritti del fanciullo stipulata a New York il 20
novembre 1989 e ratificata e resa esecutiva in Italia con la legge
27 maggio 1991, n. 176 (Ratifica ed esecuzione della convenzione sui
diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989), che
impegna lo Stato al riconoscimento nella propria legislazione del
principio per cui entrambi i genitori hanno una comune
responsabilità per l'educazione del fanciullo e per provvedere al
suo sviluppo, e comporta che entrambi debbano essere sentiti nel
procedimento limitativo della potestà di uno di essi.
La
questione così prospettata sarebbe rilevante, in quanto la madre
non sarebbe stata informata e convocata, né in proprio né quale
legale rappresentante del figlio, esercente la potestà ex
art. 317-bis cod. civ., pur avendo richiesto di essere
sentita, ed altresì in quanto il suo reclamo contro il
provvedimento nella sua interezza comprenderebbe la disposizione di
decadenza dell’altro coniuge dalla potestà, che, dunque,
apparterrebbe al thema decidendum.
4.-
Altra questione viene poi proposta - sempre con riguardo all’art.
336, secondo comma, cod. civ. - con riferimento alla mancata
previsione (nei procedimenti camerali ablativi o limitativi della
potestà genitoriale) dell’audizione del figlio minore,
direttamente da parte del giudice se <<già grandicello>>
e tramite un rappresentante se si tratti di un <<bambino più
piccolo>>.
Tale
mancata previsione violerebbe: a) <<il principio di
protezione della gioventù contenuto negli artt. 2 e 31>>
secondo comma, Cost., di cui sarebbe espressione l’ascolto del
minore previsto dall’art. 12, comma 2, della già citata
Convenzione sui diritti del fanciullo, che dispone appunto l’ascolto
del minore in ogni procedura giudiziaria e amministrativa; b)
<<il principio di ragionevolezza di cui all’art. 3, commi 1
e 2, Cost.>>, per la disparità di trattamento rispetto alla
procedura di adottabilità, per la quale l’art. 10, secondo e
quarto comma, della legge n. 184 del 1983 prevede che ogni
provvedimento temporaneo nell’interesse del minore, salvo il caso
di urgente necessità, debba essere preceduto dall’audizione, da
parte del tribunale per i minorenni, del minore che ha compiuto
dodici anni e, se ritenuto opportuno, del minore di età inferiore.
La disparità di trattamento emergerebbe perché per l’adozione di
provvedimenti con lo stesso contenuto (prescrizioni, allontanamento,
rimozione dalla potestà) non sarebbe prevista l’audizione del
minore in ogni caso; c) l’art. 111, primo e secondo comma,
Cost., <<non essendovi un giusto processo>> laddove il
minore non venga sentito, direttamente se abbia un’età
appropriata, come quella di dodici anni stabilita dall’art. 10,
quarto comma, cit. della legge n. 184 del 1983, ed altrimenti
tramite un rappresentante, in modo da attuare un contraddittorio
sostanziale, e ciò indipendentemente dal fatto che egli non possa
essere ritenuto <<parte formale>>.
5.-
La rimettente prospetta poi la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 336, secondo comma, cod. civ., in
riferimento agli artt. 2, 3, secondo comma, 24, secondo comma, 30,
primo comma, e 111, primo e secondo comma, Cost., nella parte in cui
non prevederebbe <<a pena di nullità rilevabile d’ufficio
che i genitori e il minore che abbia compiuto gli anni dodici siano
sentiti>>, in quanto se il principio del contraddittorio ex
art. 111 vale anche per i procedimenti camerali ablativi o
limitativi della potestà, il solo modo per assicurarne l’attuazione
sarebbe questa previsione di nullità per il caso di inosservanza.
6.-
La rimettente solleva poi tre ulteriori questioni di legittimità
costituzionale, che investono la disciplina prevista dall’art.
336, terzo comma, cod. civ., per i provvedimenti ablativi o
modificativi della potestà genitoriale in situazione di
<<urgente necessità>>.
La
rimettente afferma, in primo luogo, che il provvedimento reclamato
è stato adottato con implicita valutazione di sussistenza di un
caso di urgente necessità (peraltro inesistente, in quanto il
procedimento sarebbe durato vari mesi e vi sarebbe stato ritardo
nella deliberazione e nel deposito del provvedimento), senza che
fossero sentiti i genitori, senza che ne fosse stabilita la durata
(essendosi riservato ad un seguito non precisato la valutazione
della durata dell’affidamento familiare) e fissandosi la
convocazione della sola madre a distanza di quasi cinque mesi.
In
secondo luogo, rileva che non può dubitarsi dell’ammissibilità
di provvedimenti cautelari temporanei a tutela del minore,
<<purché prevedano e non procrastinino nel tempo la
successiva possibilità di contraddittorio e di difesa>>.
Su
queste premesse fonda la motivazione delle tre questioni di
costituzionalità.
6.1.-
La prima questione viene prospettata denunciandosi l’art. 336,
terzo comma, nella parte in cui non prevederebbe a pena di nullità
che il provvedimento temporaneo assunto in caso di urgente
necessità nell’interesse del minore, senza l’audizione dei
genitori e del minore che abbia compiuto gli anni dodici, debba
avere una durata massima stabilita dalla legge. Sottolinea la Corte
torinese come la prassi applicativa consentita dalla norma, incline
ad ammettere provvedimenti temporanei a durata illimitata (come
sarebbe accaduto nella fattispecie) o notevolmente lunga (per
esempio un allontanamento urgente disposto per il periodo di quattro
anni), si risolve nella sostanziale vanificazione del principio di
temporaneità.
Secondo
la rimettente tale norma violerebbe: a) l’art. 3, primo
comma, Cost., per disparità di trattamento - lesiva del principio
di uguaglianza - rispetto all’ipotesi, prevista dal terzo comma
dell’art. 10 della legge n. 184 del 1983, di assunzione di
provvedimenti temporanei di limitazione o sospensione della potestà
in caso di urgente necessità nel corso del procedimento di
adottabilità, in relazione alla quale la temporaneità sarebbe
implicitamente stabilita attraverso la previsione che entro un mese
debba intervenire il decreto di conferma, modifica o revoca. La
disparità emergerebbe per il fatto che si trattano diversamente
provvedimenti urgenti assunti in situazioni simili per il sol fatto
dell’assunzione in procedure diverse ed il modello di cui alla
procedura di adottabilità potrebbe costituire <<un
riferimento>> per conchiudere la temporaneità del
provvedimento ex art. 336, terzo comma, cod. civ., in un
periodo non superiore ad un mese, così specificandosi il petitum
inerente la questione in discorso; b) l’art. 24, secondo
comma, Cost., nonché l’art. 111, primo e secondo comma, Cost., in
quanto un provvedimento di urgenza con temporaneità illimitata o di
lunga durata finirebbe per vanificare il diritto di difesa ed il
contraddittorio nella successiva fase processuale <<perché -
tenuto conto che la gestione dei tempi in un processo profondamente
inquisitorio come quello di volontaria giurisdizione appartiene
all'esclusiva disponibilità del giudice - procrastina la necessità
di un altro provvedimento di conferma, modifica o revoca,
determinando un consolidamento nel tempo della situazione>>.
La
questione sarebbe rilevante in quanto, nell’ipotesi di
accoglimento, il provvedimento reclamato dovrebbe essere modificato,
con la fissazione del momento finale dell’affidamento
eterofamiliare.
6.2.-
La seconda questione è prospettata con riferimento alla mancata
previsione da parte dell’art. 336, terzo comma, che il tribunale
dei minorenni, dopo avere adottato il provvedimento in caso di
urgente necessità, senza audizione dei genitori e del minore che
abbia compiuto gli anni dodici, debba a pena di decadenza entro
trenta giorni, sentiti il pubblico ministero, i genitori, il tutore,
il rappresentante dell’istituto di ricovero del minore e lo stesso
minore ultradodicenne, confermare, modificare o revocare il
provvedimento temporaneo assunto. La mancata previsione della
promozione di un procedimento camerale in contraddittorio in
funzione dell’adozione di <<un provvedimento definitivo di
conferma, modifica o revoca>> avrebbe determinato una prassi
diffusa per cui i provvedimenti urgenti di breve durata perderebbero
efficacia automaticamente alla scadenza <<senza che intervenga
una conferma (o con dichiarazione di non luogo a provvedere perché
la situazione si è esaurita)>>, mentre quelli di lunga durata
verrebbero frattanto sostituiti da altri in relazione all’evoluzione
del caso, senza che <<si realizzi il diritto delle parti ad
essere ascoltate e a partecipare attivamente al procedimento con
riferimento alla conferma o modifica del provvedimento di
urgenza>>.
La
rimettente prospetta un contrasto: a) con l’art. 3, primo
comma, Cost., per irragionevole differenziazione di trattamento
rispetto ancora una volta alla disciplina del procedimento di
adottabilità, e precisamente rispetto all’art. 10, quarto e
quinto comma, della legge n. 184 del 1983; b) con gli artt.
24, secondo comma, e 111, primo e secondo comma, Cost., per lesione
del diritto alla difesa e al contraddittorio.
La
questione sarebbe rilevante perché alla data dell’ordinanza di
rimessione il Tribunale per i minorenni non avrebbe confermato,
modificato o revocato il provvedimento reclamato.
6.3.-
La terza questione relativa all’art. 336, terzo comma, è
prospettata con riferimento alla mancata previsione che il
provvedimento temporaneo emanato in mancanza dell’effettiva
ricorrenza del caso di urgente necessità sia affetto da nullità
rilevabile d’ufficio. Tale mancata previsione, in quanto
consentirebbe che il tribunale per i minorenni adotti il
provvedimento temporaneo senza sentire i genitori ed il minorenne
ultradodicenne, anche in difetto di urgente necessità, sarebbe
lesiva: a) dell’art. 24, secondo comma, Cost., in quanto
consentirebbe il sacrificio del diritto di difesa dei soggetti che
dovevano essere sentiti; b) dell’art. 111, primo e secondo
comma, Cost., in quanto sacrificherebbe il loro diritto al giusto
processo; c) del diritto di ascolto del minore, garantito
dall’art. 9, comma 2, della già citata Convenzione sui diritti
del fanciullo.
La
questione sarebbe rilevante in quanto il provvedimento reclamato
sarebbe stato adottato in mancanza di urgente necessità, desumibile
dal notevole lasso di tempo impiegato per l’assunzione delle
informazioni e dal lungo periodo decorso fra la deliberazione ed il
deposito del provvedimento reclamato.
7.-
Con l’ordinanza iscritta al n. di ruolo 240, pronunciata il 20
dicembre 2000 e pervenuta alla Corte il 12 marzo 2001, la Corte d’appello
di Genova, sezione per i minorenni - nel corso del procedimento di
reclamo proposto dalla madre di un minore contro il provvedimento
con cui il Tribunale per i minorenni di Genova aveva respinto la sua
richiesta di affidamento del minore, confermando invece l’affidamento
al padre - ha sollevato questione di legittimità costituzionale
<<degli art. 737, 738, 739 cod. proc. civ. e 336 cod.
civ.>> nella parte in cui prevedono l’applicabilità del
rito camerale, <<in caso di conflitto tra genitori non uniti
in matrimonio sull’affidamento dei figli o più in generale nei
procedimenti di limitazione o ablazione della potestà dei
genitori>>, ravvisando in tale previsione un contrasto con l’art.
111 Cost., per non essere ispirati i relativi procedimenti al
principio del giusto processo.
Circa
l’oggetto del giudizio a quo, la rimettente riferisce che,
avendo il tribunale fondato la sua decisione sulla relazione del
servizio sociale, nella quale si precisava che, a differenza di
quanto aveva affermato la madre, il minore si trovava bene con il
padre, era ben inserito a scuola ed era curato e pulito, la
reclamante, oltre a sostenere l’infondatezza del provvedimento,
nel chiederne la riforma ha eccepito l’incostituzionalità degli
artt. da 333 a 336 cod. civ., adducendo che la relazione non era
stata portata a conoscenza delle parti, <<nell’ambito di una
procedura che tollera la presenza del difensore, ma non la reputa
necessaria>>. Nel procedimento di reclamo, il padre,
nonostante la regolarità della notifica, non si sarebbe costituito.
All’udienza, sulle conclusioni della reclamante e del Procuratore
generale della Repubblica, la Corte d’appello si è riservata ed a
scioglimento della riserva ha pronunciato l’ordinanza di
rimessione.
7.1.-
La rimettente, dopo avere rilevato che la procedura applicabile nel
caso di specie è quella di cui all’art. 336 cod. civ. e che il
riferimento in esso contenuto richiama e rende applicabili le norme
degli artt. 737 e ss. cod. proc. civ., e dopo avere descritto le
modalità della procedura ivi disciplinata, nonché rammentato che
lo stesso tipo di procedimento è applicabile anche nel caso in cui
si debba provvedere ai sensi dell’art. 317-bis cod. civ.,
osserva preliminarmente che la previsione dell’art. 111 Cost. deve
considerarsi applicabile anche al procedimento ex art. 336
cod. civ. (in relazione agli artt. 330 e 333).
7.2.-
Nel giudizio a quo verrebbe d’altro canto in considerazione
una contesa fra soggetti che discutono fra loro sull’affidamento
del figlio, nel presupposto di vantare ciascuno una maggiore
idoneità, non diversamente da quanto accade per i genitori uniti in
matrimonio in caso di separazione o di divorzio, in caso di
contrasto sull’affidamento dei figli. Onde, ancora più palese
sarebbe l’esigenza che il giudice appaia terzo ed imparziale.
Viceversa, il giudice minorile si sarebbe trasformato in procuratore
e difensore dei diritti del minore, riducendo drasticamente le
garanzie, assumendo un ruolo di governo di interessi sottratti all’autonomia
privata. Di fronte alla latitudine della norma sostanziale che
individua come regola di giudizio l’apprezzamento dell’interesse
del minore e della sua lesione, <<il principio di legalità
[evidentemente inteso come regolamentazione per legge del
procedimento] deve essere reso particolarmente intenso, se si vuole
mantenere il carattere giurisdizionale del procedimento, attraverso
la garanzia del rito>>. La rimettente richiama al riguardo la
sentenza della Corte europea per i diritti dell’uomo del 15 luglio
2000 (Scozzari e Giunta/Italia) rimarcando che essa, nell’affermare
che il diritto dei genitori a mantenere, istruire ed educare i figli
è un diritto fondamentale ed ha natura di diritto soggettivo pieno,
destinato, tuttavia, a cedere sul piano sostanziale, di fronte all’incapacità
dei genitori, ha sottolineato l’esigenza che l’affievolimento
avvenga in un procedimento giudiziale che veda regolati i poteri
processuali delle parti e del giudice e consenta alle parti un
controllo pieno sulla legalità degli atti del procedimento.
7.3.-
La rimettente ricorda come la Corte costituzionale abbia talora
giudicato che anche nella procedura camerale ex artt. 737 e
ss. cod. proc. civ. il diritto di difesa potrebbe essere assicurato,
nonostante la lacunosità della disciplina.
Ma
a diversa valutazione dovrebbe indurre l’esigenza del giusto
processo regolato dalla legge, nel contraddittorio delle parti, in
condizioni di parità e davanti ad un giudice terzo ed imparziale,
posta dal nuovo art. 111 Cost.: le parti dovrebbero essere titolari
di precise facoltà e poteri processuali e lo svolgimento del
procedimento dovrebbe essere sempre controllabile sulla base di
precise indicazioni normative e non rimesso alla discrezionalità
del giudice, cui le parti non dovrebbero soggiacere.
La
procedura ex artt. 737 e ss. cod. proc. civ. e 336 cod. civ.
- in quanto sommaria e semplificata, non regolata dalla legge nelle
forme, nei tempi e nelle modalità di svolgimento, ma affidata al
contrario alla pura discrezionalità del giudice, tanto che gli
unici tratti regolati sono la proposizione <<della domanda>>
con ricorso, la nomina di un relatore, l’assunzione di
informazioni (non necessariamente nel contraddittorio delle parti),
e la decisione con decreto motivato, reclamabile davanti alla corte
d’appello, ma sempre modificabile e revocabile - sarebbe ben
lontana dalla relativa previsione costituzionale. In sede di
pronuncia sull’affidamento dei figli ai sensi dell’art. 317-bis
cod. civ., la discrezionalità del giudice riguarderebbe anche lo
stesso contenuto del provvedimento, potendo il giudice disporre l’affidamento
all’uno o all’altro dei genitori, ma anche escludere entrambi,
nell’interesse del minore, dalla potestà, nominando un tutore
(mentre nel caso di genitori uniti in matrimonio, l’affidamento ad
un terzo richiederebbe gravi motivi). L’attuazione di un
embrionale contraddittorio, le cui forme, modi e tempi non sono
disciplinati dalla legge, avverrebbe con la mera convocazione dell’interessato
e senza necessità di un difensore tecnico.
D’altro
canto, l’assenza di regole poste dalla legge, ma soltanto dedotte
in via di interpretazione adeguatrice all’art. 24 Cost.,
lascerebbe aperta la via a prassi applicative difformi per ogni
giudice o ufficio giudiziario e ciò escluderebbe la possibilità
<<di sanzionare con la rimessione al primo giudice la
violazione, in primo grado, di regole di garanzia per la difesa>>
e <<di stabilire con certezza gli effetti della nullità di
singoli atti>>.
Poiché
a seguito della novellazione dell’art. 111 Cost. il <<giusto
processo>> non può che essere quello <<regolato dalla
legge>>, dovrebbe dubitarsi della legittimità costituzionale
di un modello processuale, nel quale la decisione sui diritti, in un
settore fondamentale dell’ordinamento, è emessa a seguito di un
processo le cui cadenze sono affidate esclusivamente al giudice
<<tenuto bensì a garantire i fondamentali diritti delle
parti, ma secondo modalità non predeterminate, e rimesse al suo
apprezzamento>>: la previsione di una riserva di legge
<<in un contesto tanto delicato e rilevante>>
implicherebbe <<la necessità che sia il legislatore a
disciplinare le regole del procedimento>>.
Queste
complessive considerazioni vengono ritenute dal rimettente idonee a
giustificare la prospettata questione di costituzionalità.
7.4.-
In punto di rilevanza della questione, la rimettente, dopo avere
assunto che a giustificarla potrebbe bastare il fatto che essa deve
applicare la procedura ex artt. 336 cod. civ. e 737 e ss.
cod. proc. civ., ritiene di fornire indicazioni più specifiche con
riferimento al caso concreto e rileva che il primo giudice ha
fondato il suo provvedimento esclusivamente sulla relazione del
servizio sociale, senza che <<le parti>> fossero
informate della richiesta rivolta all’uopo al servizio sociale e
senza che abbiano potuto prenderne visione e formulare rilievi e
contestazioni. Tale secretazione dei documenti, peraltro, secondo il
rimettente non sarebbe giustificata dalla procedura ex art.
737 e ss. ed avrebbe <<errato sicuramente il [primo] giudice
al riguardo>> in quanto avrebbe violato <<l’art. 76
disp. att. c.c.>> [rectius 76, delle disposizioni di
attuazione del codice di procedura civile], che consentirebbe il
rilascio di copie di tutti gli atti contenuti nel fascicolo.
Tuttavia, in un procedimento regolato nei tempi e nei modi dalla
legge potrebbe essere previsto, <<ad esempio>>, uno
scambio di memorie prima della decisione, che nella specie
<<avrebbe potuto indirizzare il primo giudice ad un
ripensamento e magari allo svolgimento di ulteriore attività
istruttoria>>.
Soggiunge,
quindi, la rimettente: <<Certo in questo grado, le parti, e in
particolare la reclamante hanno potuto esaminare ogni documento in
atti, ma in tutta la fase precedente non hanno potuto svolgere la
loro difesa. E tuttavia non si potrebbe superare il vizio di una
prima fase in cui non si è compiutamente realizzato il principio
del contraddittorio (anche perché questa Corte non potrebbe per
questo annullare la decisione e rimettere le parti stesse davanti al
primo giudice) e comunque l’ampia discrezionalità caratterizza
pure questo grado>>.
Manifesta,
quindi, sia la consapevolezza che il procedimento ordinario, anche
dopo la riforma del 1990, non sarebbe idoneo a regolare controversie
come quella al suo esame (ma, a ben vedere, anche quelle di
separazione e di divorzio) e che, de iure condendo, il
legislatore potrebbe opportunamente coniugare l’esigenza di regole
precise e predeterminate con quella di agilità e snellezza,
funzionali ad un’efficace tutela del minore, sia la consapevolezza
che l’eventuale accoglimento della questione comporterebbe un
vuoto normativo. Ciononostante, ritiene che non possa non essere
rimessa alla Corte la questione della permanenza di una procedura
contrastante con l’art. 111 novellato.
Considerato
in diritto
1.
- I giudizi promossi dalle Corti di appello di Torino e di Genova
riguardano entrambi questioni di legittimità costituzionale di
norme sul procedimento camerale, in esito al quale il tribunale per
i minorenni pronunzia provvedimenti ablativi o modificativi della
potestà genitoriale; essi possono pertanto essere riuniti.
2.
- La Corte d’appello di Torino propone varie questioni di
legittimità costituzionale, divisibili in tre gruppi.
3.
- Al primo gruppo appartiene anzitutto la questione concernente il
combinato disposto degli artt. 739, secondo comma, e 136 del codice
di procedura civile, nella parte in cui - secondo un asserito
diritto vivente risultante dall’interpretazione accolta dal
Tribunale che ha deciso in primo grado - prevederebbe la
comunicazione del decreto del tribunale con la forma abbreviata del
biglietto di cancelleria, anziché la notificazione mediante
consegna al destinatario di copia conforme all’originale nelle
forme dell’art. 137 cod. proc. civ..
Secondo
il giudice rimettente, tale normativa viola l’art. 2 della
Costituzione (il parametro è indicato solo in dispositivo, senza
alcuna motivazione), l’art. 3, primo comma, Cost. (per
irragionevolezza, in quanto dalla comunicazione del solo dispositivo
decorre il termine di dieci giorni per proporre reclamo, in vista
del quale il provvedimento dovrebbe essere conosciuto nella sua
interezza; e per ingiustificata disparità di trattamento rispetto a
situazioni sostanzialmente simili, come la notificazione integrale
del decreto o della sentenza di adottabilità ex artt. 15,
terzo comma, 16, secondo comma, e 17, terzo comma, della legge 4
maggio 1983, n. 184 (Disciplina dell’adozione e dell’affidamento
dei minori), l’art. 97, primo comma, Cost. (per lesione del
principio del buon andamento dell’amministrazione), l’art. 24,
secondo comma, Cost. (essendo il termine di dieci giorni per il
reclamo tanto breve da ledere il diritto di difesa), l’art. 111,
secondo comma, Cost. (per violazione del principio della parità
delle parti, in quanto al P.M., a differenza che alla parte privata,
il provvedimento è comunicato integralmente), l’art. 111, sesto
comma, Cost. (in quanto la conoscenza del solo dispositivo, e non
anche della motivazione, si spiega unicamente ove sia prevista, come
per le sentenze, una successiva notifica a cura della parte più
diligente).
Anche
la seconda questione del primo gruppo è prospettata - in
riferimento agli stessi parametri - nei confronti del combinato
disposto degli artt. 739, secondo comma, e 741 cod. proc. civ.,
considerato nella parte in cui prevede che nei procedimenti camerali
in esame il termine di dieci giorni per proporre reclamo decorra
dalla comunicazione del decreto con la forma abbreviata del
biglietto di cancelleria, anziché dalla notificazione nelle forme
dell’art. 137 cod. proc. civ..
4.
- Le due questioni - delle quali la seconda si pone rispetto alla
prima in rapporto di dipendenza - possono essere esaminate
congiuntamente.
Esse
sono inammissibili.
La
Corte di appello - pur dichiarando di considerare i procedimenti
ablativi o modificativi della potestà genitoriale come
<<bilaterali o plurilaterali>>, e quindi soggetti all’art.
739, secondo comma, cod. proc. civ., che per il provvedimento
camerale <<dato nei confronti di più parti>> prevede la
notifica (e non la comunicazione con biglietto di cancelleria), e
pur riconoscendo di avere sovente applicato tali principi - ritiene
di non poter decidere in questo senso il caso di specie, per il
contrario <<diritto vivente>> identificato nella
<<prassi>> seguita dai tribunali per i minorenni ed in
specie da quello che ha pronunciato il provvedimento reclamato.
La
rimettente, pertanto, non propone una questione di legittimità
costituzionale, ma un mero dubbio interpretativo; e per di più
rinunzia a ricercare la possibilità di interpretare la norma
impugnata nel senso utile ad evitare quello che, secondo la sua
prospettazione, è il contrasto con la Costituzione, pur mostrando
di conoscere le argomentazioni letterali e sistematiche che tale
interpretazione potrebbero sorreggere.
5.
- Il secondo gruppo di questioni prospetta tre profili di
incostituzionalità dell’art. 336, secondo comma, cod. civ., che
disciplina la forma ordinaria del procedimento ablativo o
modificativo della potestà genitoriale.
La
norma è anzitutto impugnata nella parte in cui - disponendo che
<<nei casi in cui il provvedimento è chiesto contro il
genitore, questi deve essere sentito>> - non prevede che sia
sentito anche l’altro genitore, così violando l’art. 3, primo
comma, Cost. (per lesione del principio di eguaglianza fra i
genitori e per irragionevole disparità di trattamento rispetto alla
disciplina dell’art. 10, quinto comma, della legge n. 184 del
1983, che, per i procedimenti limitativi o sospensivi della potestà
nel corso del procedimento di adottabilità, prevede l’audizione
di entrambi i genitori e del tutore), l’art. 24, secondo comma,
Cost. (per lesione del diritto di difesa del genitore non sentito, e
quindi <<neppure informato della procedura>>), l’art.
30, primo comma, Cost. (in quanto ad un genitore è preclusa la
possibilità di intervenire nel procedimento relativo ai doveri e ai
diritti dell’altro in tema di mantenimento, istruzione ed
educazione dei figli), l’art. 111, primo e secondo comma, Cost.
(perché è escluso il contraddittorio tra genitori in condizioni di
parità, davanti ad un giudice terzo ed imparziale), l’art. 18,
comma 1, della Convenzione sui diritti del fanciullo stipulata a New
York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva in Italia con
la legge 27 maggio 1991, n. 176 (Ratifica ed esecuzione della
convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20
novembre 1989), che impegna lo Stato a sancire la comune
responsabilità dei genitori per l’educazione e lo sviluppo del
fanciullo, onde entrambi devono essere sentiti nel procedimento
limitativo della potestà di uno di essi.
6.
- La questione non è fondata, in quanto muove da un presupposto
interpretativo erroneo.
Il
mancato rispetto del contraddittorio nei confronti del genitore
diverso da quello contro cui il provvedimento è richiesto viene
denunciato essenzialmente in relazione al suo diritto a partecipare
al procedimento già instaurato, ma - come emerge dall’accenno al
genitore <<non informato>> - non manca un riferimento
alla fase dell’instaurazione.
Sotto
quest'ultimo aspetto, la prospettazione contraddice la stessa
qualificazione del procedimento in esame come <<bilaterale o
plurilaterale>>, che il rimettente afferma di condividere e
che comporta necessariamente la garanzia del contraddittorio, inteso
come diritto di ciascuna delle parti ad essere tempestivamente
informata del procedimento.
Del
resto l’impugnato art. 336, secondo comma - secondo cui il
tribunale provvede in camera di consiglio - va letto alla luce del
principio generale per cui anche il procedimento camerale è
ispirato al rispetto del contraddittorio (sentenza n. 103 del 1985),
nei sensi indicati.
Per
quanto poi specificamente concerne il contraddittorio come diritto
di partecipare allo svolgersi del procedimento, ed in particolare a
quella specifica attività istruttoria che è l’audizione ad opera
del giudice, il rimettente - pur richiamandosi alla Convenzione sui
diritti del fanciullo resa esecutiva con legge n. 176 del 1991, e
quindi dotata di efficacia imperativa nell’ordinamento interno -
non considera che l’art. 9, comma 2, di essa (ai sensi del quale
tutte le parti interessate devono avere la possibilità di
partecipare alle deliberazioni e far conoscere le proprie opinioni)
pone una disciplina complementare rispetto alla previsione della
norma impugnata (che prevede solo l’audizione del genitore contro
cui il provvedimento è richiesto), onde dal coordinamento fra le
due norme deriva, allo stato dell’evoluzione legislativa, che nel
procedimento in esame devono essere sentiti entrambi i genitori.
Della
fondatezza di queste conclusioni fornisce recente conferma l’art.
37, comma 3, della legge 26 aprile 2001, n. 149 (Modifiche alla
legge 4 maggio 1983, n. 184, recante "Disciplina dell’adozione
e dell’affidamento dei minori, nonché al titolo VIII del
libro primo del codice civile"), sopravvenuta all’ordinanza
di rimessione, anche se non ancora efficace. La norma ha aggiunto
nell’art. 336 cod. civ. un quarto comma, ai sensi del quale
<<Per i provvedimenti di cui ai commi precedenti, i genitori e
il minore sono assistiti da un difensore, anche a spese dello Stato
nei casi previsti dalla legge>>: ed è evidente come essa
presupponga che entrambi i genitori (ed il minore) siano
"parti" del procedimento di cui all’art. 336 cod. civ.,
e in quanto "parti" abbiano diritto di avere notizia del
procedimento e di parteciparvi.
7.
- L’art. 336, secondo comma, cod. civ., è poi impugnato per la
mancata previsione che, nei procedimenti camerali in esame, siano
sentiti il minore ultradodicenne e, se opportuno, anche quello di
età inferiore, o altrimenti i suoi genitori o il tutore.
Ne
risulterebbero violati gli artt. 2 e 31, secondo comma, Cost. (di
cui è espressione l’art. 12, comma 2, della citata Convenzione,
sull’ascolto del minore in ogni procedura giudiziaria e
amministrativa), gli artt. 3, primo e secondo comma, Cost. (sotto il
profilo sia dell’irragionevolezza, sia della disparità di
trattamento rispetto alla procedura di adottabilità, per la quale l’art.
10, secondo e quarto comma, della legge n. 184 del 1983 dispone che
il tribunale per i minorenni, prima di assumere provvedimenti
temporanei nell’interesse del minore, deve, salvo il caso di
urgente necessità, sentire il minore dodicenne e, se opportuno,
quello di età inferiore), e l’art. 111, primo e secondo comma,
Cost. (<<non essendovi un giusto processo>> se il minore
non venga sentito, direttamente o tramite un rappresentante).
8.
- La questione non è fondata, in quanto muove ancora una volta da
una premessa interpretativa erronea.
L’art.
12 della citata Convenzione - disposto al comma 1 che il fanciullo
capace di discernimento ha diritto di esprimere liberamente la sua
opinione su ogni questione che lo interessa - soggiunge al comma 2
che <<A tal fine, si darà in particolare al fanciullo la
possibilità di essere ascoltato in ogni procedura giudiziaria o
amministrativa che lo concerne, sia direttamente, sia tramite un
rappresentante o un organo appropriato, in maniera compatibile con
le regole di procedura della legislazione nazionale>>.
Tale
prescrizione, ormai entrata nell’ordinamento, è idonea ad
integrare - ove necessario - la disciplina dell’art. 336, secondo
comma, cod. civ., nel senso di configurare il minore come
<<parte>> del procedimento, con la necessità del
contraddittorio nei suoi confronti, se del caso previa nomina di un
curatore speciale ai sensi dell’art. 78 cod. proc. civ. (cfr.
ordinanza n. 528 del 2000).
Ed
è ancora una volta rilevante il richiamo alla recente legge n. 149
del 2001, dalla quale - come già notato al n. 7 - chiaramente si
evince l’attribuzione al minore (nonché ai genitori) della
qualità di parte, con tutte le conseguenti implicazioni.
9.
- Infine l’art. 336, secondo comma, cod. civ. è impugnato in
quanto non prevede <<a pena di nullità rilevabile d’ufficio
che i genitori e il minore che abbia compiuto gli anni dodici siano
sentiti>>.
Tale
mancata previsione violerebbe gli artt. 2, 3, secondo comma, 24,
secondo comma, 30, primo comma e 111, primo e secondo comma, Cost.,
poichè il principio del contraddittorio ex art. 111 Cost.
vale anche per i procedimenti camerali ablativi o limitativi della
potestà e la sua inosservanza impone la previsione di nullità.
La
questione, in quanto dipendente dalle precedenti, resta assorbita,
pur dovendosi rilevare che compete al rimettente stabilire,
applicando le norme generali sulle nullità processuali civili,
quali conseguenze esplichi sul provvedimento reclamato l’inosservanza
dell’art. 336, secondo comma, interpretato nel senso sopra
precisato.
10.
- Il terzo gruppo di questioni proposte dalla Corte d’appello di
Torino concerne - sotto tre distinti profili - l’art. 336, terzo
comma, cod. civ., secondo cui <<In caso di urgente necessità
il tribunale può adottare, anche d’ufficio, provvedimenti
temporanei nell’interesse del figlio>>.
11.
- La norma è anzitutto impugnata per la parte in cui non prevede
che il provvedimento temporaneo assunto in caso di urgente
necessità nell’interesse del minore (senza l’audizione dei
genitori e del minore che abbia compiuto dodici anni) abbia, a pena
di nullità, una durata massima, individuabile in trenta giorni.
Secondo
il giudice rimettente, questa mancata previsione viola l’art. 3,
primo comma, Cost. (per ingiustificata disparità di trattamento
rispetto ai provvedimenti urgenti di limitazione o sospensione della
potestà nel corso del procedimento di adottabilità, che l’art.
10, terzo comma, della legge n. 184 del 1983 considera
implicitamente temporanei, prevedendo l’intervento entro un mese
del decreto di conferma, modifica o revoca), e gli artt. 24, secondo
comma, e 111, primo e secondo comma, Cost. (perché un provvedimento
urgente di durata illimitata vanifica il diritto di difesa ed il
contraddittorio nella fase processuale successiva).
In
secondo luogo, la norma è impugnata in quanto non prevede che il
tribunale per i minorenni, dopo avere provveduto in via di urgenza
senza sentire genitori e minore ultradodicenne, debba entro trenta
giorni, a pena di decadenza, provvedere in contraddittorio per
confermare, modificare o revocare il provvedimento.
Ad
avviso della Corte rimettente, tale mancata previsione viola l’art.
3, primo comma, Cost. (per irragionevole disparità di trattamento
rispetto alla disciplina del procedimento di adottabilità di cui al
citato art. 10 della legge n. 184 del 1983), e gli artt. 24, secondo
comma, e 111, primo e secondo comma, Cost. (per lesione dei diritti
di difesa e del contraddittorio).
12.
- Le due questioni sono inammissibili.
Il
giudice a quo - pur dubitando che la disciplina del
procedimento urgente in materia di potestà genitoriale, di cui al
terzo comma dell’art. 336 cod. civ., sia conforme ai parametri
evocati - non ha valutato la possibilità di dare della norma
impugnata un’interpretazione idonea a porla al riparo dai dubbi di
legittimità costituzionale sottoposti al giudizio di questa Corte.
In particolare, non ha verificato se - come pure si è sostenuto in
giurisprudenza e in dottrina - il procedimento in esame, attesa la
sua natura <<cautelare>> rispetto a quello
<<ordinario>> di cui al secondo comma del medesimo art.
336 cod. civ., non possa ritenersi assoggettato alla disciplina del
procedimento cautelare uniforme dettata dagli artt. 669-bis e
ss. cod. proc. civ. (applicabile, in quanto compatibile, a tutti i
provvedimenti cautelari previsti dal codice civile: art. 669-quaterdecies),
con la conseguenza che anche il provvedimento urgente previsto dalla
norma impugnata dovrebbe ritenersi regolato dal secondo e dal terzo
comma dell’art. 669-sexies.
Il
silenzio sul punto dà luogo ad un difetto di motivazione dell’ordinanza.
13.
- Sotto un terzo profilo l’art. 336, terzo comma, cod. civ. è
impugnato in quanto - non prevedendo la nullità rilevabile d’ufficio
del provvedimento temporaneo emanato in difetto del presupposto dell’urgente
necessità - consentirebbe al tribunale per i minorenni di adottare
provvedimenti temporanei senza sentire i genitori ed il minorenne
ultradodicenne, così violando l’art. 24, secondo comma, Cost.
(per il sacrificio del diritto di difesa dei soggetti che dovevano
essere sentiti), l’art. 111, primo e secondo comma, Cost. (per la
lesione del diritto di questi soggetti al giusto processo), e infine
il diritto di ascolto del minore, garantito dall’art. 9, comma 2,
della citata Convenzione sui diritti del fanciullo.
14.
- La questione - indipendentemente dalle implicazioni desumibili dai
rilievi di cui al n. 12 - è inammissibile, non ponendo un problema
di legittimità costituzionale, ma di mera interpretazione.
Infatti
- poiché l’art. 336, terzo comma, cod. civ. prevede la
possibilità di adottare provvedimenti temporanei solo in caso di
<<urgente necessità>> - la questione se il difetto di
tale requisito comporti o meno nullità attiene all’interpretazione
della norma impugnata, alla luce dell’art. 156 cod. proc. civ.,
che spetta al giudice a
quo.
15.
- La Corte di appello di Genova impugna gli artt. 737, 738 e 739
cod. proc. civ., e l’art. 336 cod. civ., in quanto rendono
applicabile il rito camerale ai procedimenti aventi ad oggetto l’affidamento
dei minori nel caso di conflitto fra genitori non uniti in
matrimonio e, più in generale, ai procedimenti limitativi od
ablativi della potestà genitoriale.
Il
giudice rimettente - premesso che tali procedimenti mirano alla
risoluzione di conflitti fra genitori esercenti la potestà e quindi
incidono sulle loro posizioni soggettive, aventi rango di veri e
propri diritti, meritevoli di tutela al pari di quelli del minore -
ritiene che l’applicabilità del rito camerale violi l’art. 111
Cost., in relazione al principio per cui il <<giusto
processo>> deve essere regolato dalla legge, per l’assenza
in quel rito di una precisa e puntuale disciplina dei poteri del
giudice e delle parti, cui non potrebbe ovviare un’interpretazione
adeguatrice ex art. 24 Cost., che lascerebbe aperta la via a
prassi applicative difformi per ogni ufficio giudiziario, onde il
giudice del reclamo non potrebbe né sanzionare con la rimessione al
primo giudice la violazione in primo grado <<di regole di
garanzia per la difesa>>, né <<stabilire con certezza
gli effetti della nullità di singoli atti>>.
16.-
La questione è inammissibile.
Il
giudice rimettente - il quale afferma esplicitamente che la
normativa impugnata non è suscettibile di essere interpretata in
senso conforme a Costituzione - non motiva adeguatamente le ragioni
di tale suo convincimento.
Quanto
alle eventuali prassi distorsive, esse si risolverebbero in errori
cui rimedierebbe in sede di reclamo il controllo dei provvedimenti
emessi in prima istanza (come del resto fa la stessa ordinanza per
la prassi della secretazione delle relazioni dei servizi sociali,
riguardo alla quale esplicitamente individua la norma che la vieta).
D’altro
canto, la tesi dell’impossibilità, per il giudice del reclamo, di
sanzionare con la rimessione del procedimento al primo giudice la
violazione di regole poste a garanzia del diritto di difesa
verificatesi in primo grado, non considera che, nell’ordinamento
processuale civile, la rimessione al primo giudice è fenomeno
limitato ai casi previsti dagli artt. 353 e 354 cod. proc. civ.,
onde corrisponde ai principi che il giudice del reclamo, constatata
una violazione in prima istanza delle regole del contraddittorio o
del diritto di difesa non riconducibile ai casi di rimessione
espressamente previsti, adotti una nuova decisione rispettosa di
quelle regole.
Infine,
la tesi dell’impossibilità per il giudice del reclamo di
stabilire con certezza la nullità di singoli atti postula un
sistema di nullità degli atti del processo civile necessariamente
correlato a specifiche previsioni normative, e perciò diverso da
quello in vigore, così come risulta dal secondo e terzo comma dell’art.
156 cod. proc. civ..
Dalla
rilevata insufficienza di motivazione discende l’inammissibilità
della questione.
per
questi motivi
LA
CORTE COSTITUZIONALE
riuniti
i giudizi,
dichiara
inammissibili le questioni di legittimità costituzionale del
combinato disposto degli artt. 739, secondo comma, e 136 e del
combinato disposto degli artt. 739, secondo comma, e 741 del codice
di procedura civile, sollevate dalla Corte d’appello di Torino,
sezione per i minori, in riferimento agli artt. 2, 3, primo comma,
24, secondo comma, 97, primo comma, e 111, secondo e sesto comma,
della Costituzione, con l’ordinanza indicata in epigrafe;
dichiara
non
fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 336,
secondo comma, del codice civile, sollevate dalla Corte d’appello
di Torino, sezione per i minorenni, in riferimento agli artt. 3,
primo e secondo comma, 24, secondo comma, 30, primo comma, 31,
secondo comma, e 111, primo e secondo comma, della Costituzione, con
l’ordinanza indicata in epigrafe;
dichiara
inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art.
336, terzo comma, del codice civile, sollevate dalla Corte d’appello
di Torino, sezione per i minorenni, in riferimento agli artt. 3,
primo comma, 24, secondo comma, 111, primo e secondo comma, della
Costituzione, con l’ordinanza indicata in epigrafe;
dichiara
inammissibile la questione di legittimità costituzionale degli artt.
737, 738 e 739 del codice di procedura civile e 336 del codice
civile, sollevata dalla Corte d’appello di Genova, sezione per i
minorenni, in riferimento all’art. 111 della Costituzione, con l’ordinanza
in epigrafe.
Così
deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della
Consulta, il 16 gennaio 2002.
F.to:
Cesare
RUPERTO, Presidente
Franco
BILE, Redattore
Giuseppe
DI PAOLA, Cancelliere
Depositata
in Cancelleria il 30 gennaio 2002.
Il
Direttore della Cancelleria
F.to:
DI PAOLA
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