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SENTENZA N. 1

ANNO 2002

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai Signori:

- Cesare RUPERTO Presidente

- Massimo VARI Giudice

- Riccardo CHIEPPA "

- Gustavo ZAGREBELSKY "

- Valerio ONIDA "

- Carlo MEZZANOTTE "

- Fernanda CONTRI "

- Guido NEPPI MODONA "

- Piero Alberto CAPOTOSTI "

- Franco BILE "

- Giovanni Maria FLICK "

ha pronunciato la seguente

S E N T E N Z A

nei giudizi di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt.739, secondo comma, e 136 e del combinato disposto degli artt.739, secondo comma, e 741 del codice di procedura civile; dell'art. 336, secondo e terzo comma, del codice civile; degli artt. 737, 738 e 739 del codice di procedura civile e dell'art. 336 del codice civile, promossi con ordinanze emesse il 18 dicembre 2000 dalla Corte di appello di Torino, sezione per i minorenni, sul reclamo proposto da M. D., iscritta al n. 163 del registro ordinanze 2001 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 11, prima serie speciale, dell'anno 2001 e il 20 dicembre 2000 dalla Corte di appello di Genova, sezione per i minorenni, sul reclamo proposto da C. G., iscritta al n. 240 del registro ordinanze 2001 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 14, prima serie speciale, dell'anno 2001.

Visto l'atto di costituzione di C. G.;

udito nella camera di consiglio del 24 ottobre 2001 il Giudice relatore Franco Bile.

Ritenuto in fatto

1. - Con l’ordinanza iscritta al n. di ruolo 163 del 2001, pronunciata il 18 dicembre 2000 e pervenuta alla Corte il 19 febbraio 2001, la Corte d’appello di Torino, sezione per i minorenni - nel corso del procedimento di reclamo introdotto dalla madre di un minore avverso il decreto con cui il Tribunale per i minorenni di Torino aveva dichiarato, ai sensi degli artt. 330, 333 e 336 del codice civile, la decadenza del padre dalla potestà parentale, e disposto, previo allontanamento dalla madre affidataria ex art. 317-bis del codice civile, l’affidamento familiare del minore a cura del servizio sociale -, ha sollevato una serie di questioni di legittimità costituzionale nei termini di seguito indicati.

Il rimettente riferisce che il Tribunale per i minorenni aveva nel contempo, su richiesta del P.M., aperto un procedimento per la declaratoria della decadenza del padre dalla potestà genitoriale, e che il giudice delegato aveva convocato il solo padre del minore e non anche la madre, ed acquisito informazioni dai servizi sociali ed il parere del P.M., ed aveva poi emesso il decreto reclamato, comunicato per esteso al P.M. ed al giudice tutelare, notificato per esteso al servizio sociale e notificato nel solo dispositivo alla madre.

Con il reclamo la madre ha chiesto la dichiarazione di inefficacia o inesistenza del decreto comunicatole senza motivazione, la sospensione dell’applicazione del provvedimento, la dichiarazione di non manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale degli artt. 133, 136 e 739 del codice di procedura civile in riferimento agli artt. 2, 3, 13, 24 e 111 della Costituzione, nella parte in cui prevederebbero che i provvedimenti pronunciati in camera di consiglio dal tribunale per i minorenni e reclamabili nel termine perentorio di dieci giorni siano comunicati alle parti private limitatamente al dispositivo e non per esteso, ed in ogni caso la riforma del provvedimento.

2.- La Corte rimettente ritiene fra l’altro che la previsione del secondo comma dell’art. 739 cod. proc. civ. (secondo cui il provvedimento emesso in camera di consiglio è comunicato se dato in confronto di una sola parte, o notificato se dato in confronto di più parti) deve essere coordinata con il rilievo che i procedimenti relativi alla potestà genitoriale sono considerati dalla dottrina <<bilaterali o plurilaterali>>, onde il provvedimento che li conclude dovrebbe essere interamente notificato alle parti ed al P.M. ex art. 137 cod. proc. civ.. Tuttavia i tribunali per i minorenni ed anche quello di Torino <<comunicano non l’intero decreto ma solo il suo dispositivo, a mente dell’art. 136 cod. proc. civ., consegnando il biglietto di cancelleria al destinatario o disponendone la notifica da parte dell'ufficiale giudiziario, e dalla data di questa comunicazione del dispositivo fanno decorrere il termine perentorio di dieci giorni decorso il quale, in assenza di reclamo, il decreto acquista efficacia ex art. 741, comma 1, cod. proc. civ.>>.

Questa interpretazione - che la rimettente considera <<diritto vivente>> - contrasterebbe:

a) con l’art. 3, primo comma, Cost.: a1) in quanto non rispetterebbe <<il principio di ragionevolezza>>, perché, mentre con riferimento alla sentenza la comunicazione del solo dispositivo avrebbe una sua ragione, in quanto servirebbe soltanto a mettere le parti nella condizione di poter notificare la sentenza al fine della decorrenza del termine breve di trenta giorni per l’impugnazione, nel caso dei provvedimenti in discorso la comunicazione farebbe decorrere essa stessa il termine di dieci giorni per il reclamo onde sarebbe necessario conoscere il provvedimento nella sua interezza; a2) in quanto realizzerebbe - arbitrariamente e senza una razionale giustificazione - un trattamento differenziato rispetto alla disciplina della notificazione d’ufficio integrale del decreto o della sentenza di adottabilità, ex artt. 15, terzo comma, 16, secondo comma, e 17, terzo comma, della legge n. 184 del 1983;

b) con l’art. 97, primo comma, Cost., perché risulterebbe leso il principio del buon andamento dell’amministrazione;

c) con l’art. 24, secondo comma, Cost., in quanto il termine di dieci giorni per il reclamo, per la sua brevità, pur congruo a consentire all’interessato l’attività di impugnazione, sarebbe invece insufficiente, tenuto conto che l’interessato non potrebbe utilizzarlo integralmente, dovendosi rivolgere alla cancelleria per ottenere la copia del provvedimento: l’insufficienza sarebbe particolarmente evidente nel caso in cui l’interessato dimori in una regione diversa da quella della sede dell’ufficio giudiziario o all’estero;

d) con l’art. 111, secondo comma, Cost., per la violazione del principio della parità delle parti, derivante dal fatto che il P.M. riceverebbe comunicazione integrale del provvedimento e, quindi, potrebbe esercitare il diritto di impugnazione conoscendone il contenuto per l’intera durata del termine di reclamo, mentre la parte privata avrebbe conoscenza di quel contenuto solo dal momento in cui ne ottenga copia dalla cancelleria;

e) con l’art. 111, sesto comma, Cost., in quanto la motivazione non costituirebbe un fatto interno e dovrebbe essere portata a conoscenza delle parti subito, mentre la conoscenza del solo dispositivo si giustificherebbe esclusivamente ove sia previsto - come per le sentenze - un meccanismo successivo di notifiche a cura della parte più diligente.

f) ed infine con l’art. 2 Cost.: questo parametro viene, peraltro, evocato solo in dispositivo.

2.1.- Sulla base di tali motivazioni la rimettente solleva la questione di legittimità costituzionale dell’art. 739, secondo comma, cod. proc. civ., <<in relazione all’art. 136 cod. proc. civ., nella parte in cui nel diritto vivente tali norme prevedono>> <<la comunicazione del decreto assunto dal tribunale per i minorenni nei procedimenti camerali ablativi o modificativi della potestà genitoriale con la forma abbreviata del biglietto di cancelleria, anziché la notificazione mediante consegna al destinatario di copia per esteso conforme all’originale del decreto nelle forme dell’art. 137 del codice di procedura civile>>.

La medesima questione viene prospettata anche con riferimento <<al combinato disposto degli artt. 739, comma 2, e 741 cod. proc. civ., nella parte in cui dispongono che nei procedimenti camerali del tribunale per i minorenni ablativi e modificativi della potestà genitoriale il termine di dieci giorni per proporre reclamo e il termine di efficacia del decreto decorrano dalla comunicazione del decreto con la forma abbreviata del biglietto di cancelleria, anziché della notificazione mediante consegna al destinatario di copia per esteso conforme all'originale del decreto nelle forme dell’art. 137 cod. proc. civ.>>.

Quanto alla rilevanza della questione, la rimettente osserva che la reclamante, avendo ricevuto soltanto la comunicazione del dispositivo del provvedimento e non avendo potuto apprendere da tale comunicazione le ragioni del medesimo, non avrebbe potuto preparare nel brevissimo termine di dieci giorni previsto per il reclamo un ricorso che tenesse conto dei motivi per i quali il figlio veniva da lei allontanato e si sarebbe limitata a proporre la questione di costituzionalità, senza poter sviluppare le difese di merito. Dopo di che osserva di avere autorizzato <<in passato>>, in situazioni simili, il rilascio alla parte reclamante di copia integrale del decreto reclamato, e concesso alla stessa un termine per completare con memoria le proprie difese. Ma alla rimettente <<pare però giusto che, attesa la rilevanza della questione e la frequenza con cui viene proposta dai difensori con i motivi di impugnazione, sia la Corte Costituzionale a valutare se le attuate modalità di comunicazione del solo dispositivo del decreto negli accennati procedimenti siano addirittura costituzionalmente illegittime>>.

3.- La rimettente, inoltre, solleva d’ufficio una serie di altre questioni, che investono il secondo e il terzo comma dell’art. 336 cod. civ..

La prima questione investe l’art. 336, secondo comma, nella parte in cui non prevederebbe che nei procedimenti camerali ablativi o modificativi della potestà genitoriale sia sentito anche il genitore contro cui il provvedimento non è richiesto. Ad avviso della rimettente, questa mancata previsione aveva un significato anteriormente alla riforma del diritto di famiglia del 1975, quando un solo genitore (di norma il padre) era titolare della potestà, ma non si giustificherebbe più in un regime di potestà congiunta e paritaria, in cui alla decadenza o alla limitazione della potestà di un genitore corrisponde una maggiore pienezza della potestà dell'altro genitore.

La limitazione dell’audizione ad un solo genitore, violerebbe: a) l’art. 3, primo comma, Cost., per lesione del principio di eguaglianza fra i genitori, e per irragionevolezza della diversità rispetto alla disciplina di cui all’art. 10, quinto comma, della legge 4 maggio 1983, n. 184, che, per i procedimenti limitativi o sospensivi della potestà nel corso del procedimento di adottabilità, impone l’audizione preventiva di entrambi i genitori e, se c’è, del tutore; b) l’art. 24, secondo comma, Cost., per lesione del <<diritto di autodifesa, con facoltà di farsi assistere da un difensore, del genitore non sentito e, quindi, neppure informato della procedura>>; c) l’art. 30, primo comma, Cost., per l’esclusione di un genitore dalla possibilità di intervenire in un procedimento relativo ai doveri e diritti dell’altro genitore di mantenere, istruire ed educare i figli; d) l’art. 111, primo e secondo comma, Cost., per l’esclusione di <<un contraddittorio tra le parti, i due genitori in proprio e quali legali rappresentanti del figlio, in condizioni di parità, davanti ad un giudice terzo ed imparziale>>; e) l’art. 18, comma 1, della Convenzione sui diritti del fanciullo stipulata a New York il 20 novembre 1989 e ratificata e resa esecutiva in Italia con la legge 27 maggio 1991, n. 176 (Ratifica ed esecuzione della convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989), che impegna lo Stato al riconoscimento nella propria legislazione del principio per cui entrambi i genitori hanno una comune responsabilità per l'educazione del fanciullo e per provvedere al suo sviluppo, e comporta che entrambi debbano essere sentiti nel procedimento limitativo della potestà di uno di essi.

La questione così prospettata sarebbe rilevante, in quanto la madre non sarebbe stata informata e convocata, né in proprio né quale legale rappresentante del figlio, esercente la potestà ex art. 317-bis cod. civ., pur avendo richiesto di essere sentita, ed altresì in quanto il suo reclamo contro il provvedimento nella sua interezza comprenderebbe la disposizione di decadenza dell’altro coniuge dalla potestà, che, dunque, apparterrebbe al thema decidendum.

4.- Altra questione viene poi proposta - sempre con riguardo all’art. 336, secondo comma, cod. civ. - con riferimento alla mancata previsione (nei procedimenti camerali ablativi o limitativi della potestà genitoriale) dell’audizione del figlio minore, direttamente da parte del giudice se <<già grandicello>> e tramite un rappresentante se si tratti di un <<bambino più piccolo>>.

Tale mancata previsione violerebbe: a) <<il principio di protezione della gioventù contenuto negli artt. 2 e 31>> secondo comma, Cost., di cui sarebbe espressione l’ascolto del minore previsto dall’art. 12, comma 2, della già citata Convenzione sui diritti del fanciullo, che dispone appunto l’ascolto del minore in ogni procedura giudiziaria e amministrativa; b) <<il principio di ragionevolezza di cui all’art. 3, commi 1 e 2, Cost.>>, per la disparità di trattamento rispetto alla procedura di adottabilità, per la quale l’art. 10, secondo e quarto comma, della legge n. 184 del 1983 prevede che ogni provvedimento temporaneo nell’interesse del minore, salvo il caso di urgente necessità, debba essere preceduto dall’audizione, da parte del tribunale per i minorenni, del minore che ha compiuto dodici anni e, se ritenuto opportuno, del minore di età inferiore. La disparità di trattamento emergerebbe perché per l’adozione di provvedimenti con lo stesso contenuto (prescrizioni, allontanamento, rimozione dalla potestà) non sarebbe prevista l’audizione del minore in ogni caso; c) l’art. 111, primo e secondo comma, Cost., <<non essendovi un giusto processo>> laddove il minore non venga sentito, direttamente se abbia un’età appropriata, come quella di dodici anni stabilita dall’art. 10, quarto comma, cit. della legge n. 184 del 1983, ed altrimenti tramite un rappresentante, in modo da attuare un contraddittorio sostanziale, e ciò indipendentemente dal fatto che egli non possa essere ritenuto <<parte formale>>.

5.- La rimettente prospetta poi la questione di legittimità costituzionale dell’art. 336, secondo comma, cod. civ., in riferimento agli artt. 2, 3, secondo comma, 24, secondo comma, 30, primo comma, e 111, primo e secondo comma, Cost., nella parte in cui non prevederebbe <<a pena di nullità rilevabile d’ufficio che i genitori e il minore che abbia compiuto gli anni dodici siano sentiti>>, in quanto se il principio del contraddittorio ex art. 111 vale anche per i procedimenti camerali ablativi o limitativi della potestà, il solo modo per assicurarne l’attuazione sarebbe questa previsione di nullità per il caso di inosservanza.

6.- La rimettente solleva poi tre ulteriori questioni di legittimità costituzionale, che investono la disciplina prevista dall’art. 336, terzo comma, cod. civ., per i provvedimenti ablativi o modificativi della potestà genitoriale in situazione di <<urgente necessità>>.

La rimettente afferma, in primo luogo, che il provvedimento reclamato è stato adottato con implicita valutazione di sussistenza di un caso di urgente necessità (peraltro inesistente, in quanto il procedimento sarebbe durato vari mesi e vi sarebbe stato ritardo nella deliberazione e nel deposito del provvedimento), senza che fossero sentiti i genitori, senza che ne fosse stabilita la durata (essendosi riservato ad un seguito non precisato la valutazione della durata dell’affidamento familiare) e fissandosi la convocazione della sola madre a distanza di quasi cinque mesi.

In secondo luogo, rileva che non può dubitarsi dell’ammissibilità di provvedimenti cautelari temporanei a tutela del minore, <<purché prevedano e non procrastinino nel tempo la successiva possibilità di contraddittorio e di difesa>>.

Su queste premesse fonda la motivazione delle tre questioni di costituzionalità.

6.1.- La prima questione viene prospettata denunciandosi l’art. 336, terzo comma, nella parte in cui non prevederebbe a pena di nullità che il provvedimento temporaneo assunto in caso di urgente necessità nell’interesse del minore, senza l’audizione dei genitori e del minore che abbia compiuto gli anni dodici, debba avere una durata massima stabilita dalla legge. Sottolinea la Corte torinese come la prassi applicativa consentita dalla norma, incline ad ammettere provvedimenti temporanei a durata illimitata (come sarebbe accaduto nella fattispecie) o notevolmente lunga (per esempio un allontanamento urgente disposto per il periodo di quattro anni), si risolve nella sostanziale vanificazione del principio di temporaneità.

Secondo la rimettente tale norma violerebbe: a) l’art. 3, primo comma, Cost., per disparità di trattamento - lesiva del principio di uguaglianza - rispetto all’ipotesi, prevista dal terzo comma dell’art. 10 della legge n. 184 del 1983, di assunzione di provvedimenti temporanei di limitazione o sospensione della potestà in caso di urgente necessità nel corso del procedimento di adottabilità, in relazione alla quale la temporaneità sarebbe implicitamente stabilita attraverso la previsione che entro un mese debba intervenire il decreto di conferma, modifica o revoca. La disparità emergerebbe per il fatto che si trattano diversamente provvedimenti urgenti assunti in situazioni simili per il sol fatto dell’assunzione in procedure diverse ed il modello di cui alla procedura di adottabilità potrebbe costituire <<un riferimento>> per conchiudere la temporaneità del provvedimento ex art. 336, terzo comma, cod. civ., in un periodo non superiore ad un mese, così specificandosi il petitum inerente la questione in discorso; b) l’art. 24, secondo comma, Cost., nonché l’art. 111, primo e secondo comma, Cost., in quanto un provvedimento di urgenza con temporaneità illimitata o di lunga durata finirebbe per vanificare il diritto di difesa ed il contraddittorio nella successiva fase processuale <<perché - tenuto conto che la gestione dei tempi in un processo profondamente inquisitorio come quello di volontaria giurisdizione appartiene all'esclusiva disponibilità del giudice - procrastina la necessità di un altro provvedimento di conferma, modifica o revoca, determinando un consolidamento nel tempo della situazione>>.

La questione sarebbe rilevante in quanto, nell’ipotesi di accoglimento, il provvedimento reclamato dovrebbe essere modificato, con la fissazione del momento finale dell’affidamento eterofamiliare.

6.2.- La seconda questione è prospettata con riferimento alla mancata previsione da parte dell’art. 336, terzo comma, che il tribunale dei minorenni, dopo avere adottato il provvedimento in caso di urgente necessità, senza audizione dei genitori e del minore che abbia compiuto gli anni dodici, debba a pena di decadenza entro trenta giorni, sentiti il pubblico ministero, i genitori, il tutore, il rappresentante dell’istituto di ricovero del minore e lo stesso minore ultradodicenne, confermare, modificare o revocare il provvedimento temporaneo assunto. La mancata previsione della promozione di un procedimento camerale in contraddittorio in funzione dell’adozione di <<un provvedimento definitivo di conferma, modifica o revoca>> avrebbe determinato una prassi diffusa per cui i provvedimenti urgenti di breve durata perderebbero efficacia automaticamente alla scadenza <<senza che intervenga una conferma (o con dichiarazione di non luogo a provvedere perché la situazione si è esaurita)>>, mentre quelli di lunga durata verrebbero frattanto sostituiti da altri in relazione all’evoluzione del caso, senza che <<si realizzi il diritto delle parti ad essere ascoltate e a partecipare attivamente al procedimento con riferimento alla conferma o modifica del provvedimento di urgenza>>.

La rimettente prospetta un contrasto: a) con l’art. 3, primo comma, Cost., per irragionevole differenziazione di trattamento rispetto ancora una volta alla disciplina del procedimento di adottabilità, e precisamente rispetto all’art. 10, quarto e quinto comma, della legge n. 184 del 1983; b) con gli artt. 24, secondo comma, e 111, primo e secondo comma, Cost., per lesione del diritto alla difesa e al contraddittorio.

La questione sarebbe rilevante perché alla data dell’ordinanza di rimessione il Tribunale per i minorenni non avrebbe confermato, modificato o revocato il provvedimento reclamato.

6.3.- La terza questione relativa all’art. 336, terzo comma, è prospettata con riferimento alla mancata previsione che il provvedimento temporaneo emanato in mancanza dell’effettiva ricorrenza del caso di urgente necessità sia affetto da nullità rilevabile d’ufficio. Tale mancata previsione, in quanto consentirebbe che il tribunale per i minorenni adotti il provvedimento temporaneo senza sentire i genitori ed il minorenne ultradodicenne, anche in difetto di urgente necessità, sarebbe lesiva: a) dell’art. 24, secondo comma, Cost., in quanto consentirebbe il sacrificio del diritto di difesa dei soggetti che dovevano essere sentiti; b) dell’art. 111, primo e secondo comma, Cost., in quanto sacrificherebbe il loro diritto al giusto processo; c) del diritto di ascolto del minore, garantito dall’art. 9, comma 2, della già citata Convenzione sui diritti del fanciullo.

La questione sarebbe rilevante in quanto il provvedimento reclamato sarebbe stato adottato in mancanza di urgente necessità, desumibile dal notevole lasso di tempo impiegato per l’assunzione delle informazioni e dal lungo periodo decorso fra la deliberazione ed il deposito del provvedimento reclamato.

7.- Con l’ordinanza iscritta al n. di ruolo 240, pronunciata il 20 dicembre 2000 e pervenuta alla Corte il 12 marzo 2001, la Corte d’appello di Genova, sezione per i minorenni - nel corso del procedimento di reclamo proposto dalla madre di un minore contro il provvedimento con cui il Tribunale per i minorenni di Genova aveva respinto la sua richiesta di affidamento del minore, confermando invece l’affidamento al padre - ha sollevato questione di legittimità costituzionale <<degli art. 737, 738, 739 cod. proc. civ. e 336 cod. civ.>> nella parte in cui prevedono l’applicabilità del rito camerale, <<in caso di conflitto tra genitori non uniti in matrimonio sull’affidamento dei figli o più in generale nei procedimenti di limitazione o ablazione della potestà dei genitori>>, ravvisando in tale previsione un contrasto con l’art. 111 Cost., per non essere ispirati i relativi procedimenti al principio del giusto processo.

Circa l’oggetto del giudizio a quo, la rimettente riferisce che, avendo il tribunale fondato la sua decisione sulla relazione del servizio sociale, nella quale si precisava che, a differenza di quanto aveva affermato la madre, il minore si trovava bene con il padre, era ben inserito a scuola ed era curato e pulito, la reclamante, oltre a sostenere l’infondatezza del provvedimento, nel chiederne la riforma ha eccepito l’incostituzionalità degli artt. da 333 a 336 cod. civ., adducendo che la relazione non era stata portata a conoscenza delle parti, <<nell’ambito di una procedura che tollera la presenza del difensore, ma non la reputa necessaria>>. Nel procedimento di reclamo, il padre, nonostante la regolarità della notifica, non si sarebbe costituito. All’udienza, sulle conclusioni della reclamante e del Procuratore generale della Repubblica, la Corte d’appello si è riservata ed a scioglimento della riserva ha pronunciato l’ordinanza di rimessione.

7.1.- La rimettente, dopo avere rilevato che la procedura applicabile nel caso di specie è quella di cui all’art. 336 cod. civ. e che il riferimento in esso contenuto richiama e rende applicabili le norme degli artt. 737 e ss. cod. proc. civ., e dopo avere descritto le modalità della procedura ivi disciplinata, nonché rammentato che lo stesso tipo di procedimento è applicabile anche nel caso in cui si debba provvedere ai sensi dell’art. 317-bis cod. civ., osserva preliminarmente che la previsione dell’art. 111 Cost. deve considerarsi applicabile anche al procedimento ex art. 336 cod. civ. (in relazione agli artt. 330 e 333).

7.2.- Nel giudizio a quo verrebbe d’altro canto in considerazione una contesa fra soggetti che discutono fra loro sull’affidamento del figlio, nel presupposto di vantare ciascuno una maggiore idoneità, non diversamente da quanto accade per i genitori uniti in matrimonio in caso di separazione o di divorzio, in caso di contrasto sull’affidamento dei figli. Onde, ancora più palese sarebbe l’esigenza che il giudice appaia terzo ed imparziale. Viceversa, il giudice minorile si sarebbe trasformato in procuratore e difensore dei diritti del minore, riducendo drasticamente le garanzie, assumendo un ruolo di governo di interessi sottratti all’autonomia privata. Di fronte alla latitudine della norma sostanziale che individua come regola di giudizio l’apprezzamento dell’interesse del minore e della sua lesione, <<il principio di legalità [evidentemente inteso come regolamentazione per legge del procedimento] deve essere reso particolarmente intenso, se si vuole mantenere il carattere giurisdizionale del procedimento, attraverso la garanzia del rito>>. La rimettente richiama al riguardo la sentenza della Corte europea per i diritti dell’uomo del 15 luglio 2000 (Scozzari e Giunta/Italia) rimarcando che essa, nell’affermare che il diritto dei genitori a mantenere, istruire ed educare i figli è un diritto fondamentale ed ha natura di diritto soggettivo pieno, destinato, tuttavia, a cedere sul piano sostanziale, di fronte all’incapacità dei genitori, ha sottolineato l’esigenza che l’affievolimento avvenga in un procedimento giudiziale che veda regolati i poteri processuali delle parti e del giudice e consenta alle parti un controllo pieno sulla legalità degli atti del procedimento.

7.3.- La rimettente ricorda come la Corte costituzionale abbia talora giudicato che anche nella procedura camerale ex artt. 737 e ss. cod. proc. civ. il diritto di difesa potrebbe essere assicurato, nonostante la lacunosità della disciplina.

Ma a diversa valutazione dovrebbe indurre l’esigenza del giusto processo regolato dalla legge, nel contraddittorio delle parti, in condizioni di parità e davanti ad un giudice terzo ed imparziale, posta dal nuovo art. 111 Cost.: le parti dovrebbero essere titolari di precise facoltà e poteri processuali e lo svolgimento del procedimento dovrebbe essere sempre controllabile sulla base di precise indicazioni normative e non rimesso alla discrezionalità del giudice, cui le parti non dovrebbero soggiacere.

La procedura ex artt. 737 e ss. cod. proc. civ. e 336 cod. civ. - in quanto sommaria e semplificata, non regolata dalla legge nelle forme, nei tempi e nelle modalità di svolgimento, ma affidata al contrario alla pura discrezionalità del giudice, tanto che gli unici tratti regolati sono la proposizione <<della domanda>> con ricorso, la nomina di un relatore, l’assunzione di informazioni (non necessariamente nel contraddittorio delle parti), e la decisione con decreto motivato, reclamabile davanti alla corte d’appello, ma sempre modificabile e revocabile - sarebbe ben lontana dalla relativa previsione costituzionale. In sede di pronuncia sull’affidamento dei figli ai sensi dell’art. 317-bis cod. civ., la discrezionalità del giudice riguarderebbe anche lo stesso contenuto del provvedimento, potendo il giudice disporre l’affidamento all’uno o all’altro dei genitori, ma anche escludere entrambi, nell’interesse del minore, dalla potestà, nominando un tutore (mentre nel caso di genitori uniti in matrimonio, l’affidamento ad un terzo richiederebbe gravi motivi). L’attuazione di un embrionale contraddittorio, le cui forme, modi e tempi non sono disciplinati dalla legge, avverrebbe con la mera convocazione dell’interessato e senza necessità di un difensore tecnico.

D’altro canto, l’assenza di regole poste dalla legge, ma soltanto dedotte in via di interpretazione adeguatrice all’art. 24 Cost., lascerebbe aperta la via a prassi applicative difformi per ogni giudice o ufficio giudiziario e ciò escluderebbe la possibilità <<di sanzionare con la rimessione al primo giudice la violazione, in primo grado, di regole di garanzia per la difesa>> e <<di stabilire con certezza gli effetti della nullità di singoli atti>>.

Poiché a seguito della novellazione dell’art. 111 Cost. il <<giusto processo>> non può che essere quello <<regolato dalla legge>>, dovrebbe dubitarsi della legittimità costituzionale di un modello processuale, nel quale la decisione sui diritti, in un settore fondamentale dell’ordinamento, è emessa a seguito di un processo le cui cadenze sono affidate esclusivamente al giudice <<tenuto bensì a garantire i fondamentali diritti delle parti, ma secondo modalità non predeterminate, e rimesse al suo apprezzamento>>: la previsione di una riserva di legge <<in un contesto tanto delicato e rilevante>> implicherebbe <<la necessità che sia il legislatore a disciplinare le regole del procedimento>>.

Queste complessive considerazioni vengono ritenute dal rimettente idonee a giustificare la prospettata questione di costituzionalità.

7.4.- In punto di rilevanza della questione, la rimettente, dopo avere assunto che a giustificarla potrebbe bastare il fatto che essa deve applicare la procedura ex artt. 336 cod. civ. e 737 e ss. cod. proc. civ., ritiene di fornire indicazioni più specifiche con riferimento al caso concreto e rileva che il primo giudice ha fondato il suo provvedimento esclusivamente sulla relazione del servizio sociale, senza che <<le parti>> fossero informate della richiesta rivolta all’uopo al servizio sociale e senza che abbiano potuto prenderne visione e formulare rilievi e contestazioni. Tale secretazione dei documenti, peraltro, secondo il rimettente non sarebbe giustificata dalla procedura ex art. 737 e ss. ed avrebbe <<errato sicuramente il [primo] giudice al riguardo>> in quanto avrebbe violato <<l’art. 76 disp. att. c.c.>> [rectius 76, delle disposizioni di attuazione del codice di procedura civile], che consentirebbe il rilascio di copie di tutti gli atti contenuti nel fascicolo. Tuttavia, in un procedimento regolato nei tempi e nei modi dalla legge potrebbe essere previsto, <<ad esempio>>, uno scambio di memorie prima della decisione, che nella specie <<avrebbe potuto indirizzare il primo giudice ad un ripensamento e magari allo svolgimento di ulteriore attività istruttoria>>.

Soggiunge, quindi, la rimettente: <<Certo in questo grado, le parti, e in particolare la reclamante hanno potuto esaminare ogni documento in atti, ma in tutta la fase precedente non hanno potuto svolgere la loro difesa. E tuttavia non si potrebbe superare il vizio di una prima fase in cui non si è compiutamente realizzato il principio del contraddittorio (anche perché questa Corte non potrebbe per questo annullare la decisione e rimettere le parti stesse davanti al primo giudice) e comunque l’ampia discrezionalità caratterizza pure questo grado>>.

Manifesta, quindi, sia la consapevolezza che il procedimento ordinario, anche dopo la riforma del 1990, non sarebbe idoneo a regolare controversie come quella al suo esame (ma, a ben vedere, anche quelle di separazione e di divorzio) e che, de iure condendo, il legislatore potrebbe opportunamente coniugare l’esigenza di regole precise e predeterminate con quella di agilità e snellezza, funzionali ad un’efficace tutela del minore, sia la consapevolezza che l’eventuale accoglimento della questione comporterebbe un vuoto normativo. Ciononostante, ritiene che non possa non essere rimessa alla Corte la questione della permanenza di una procedura contrastante con l’art. 111 novellato.

Considerato in diritto

1. - I giudizi promossi dalle Corti di appello di Torino e di Genova riguardano entrambi questioni di legittimità costituzionale di norme sul procedimento camerale, in esito al quale il tribunale per i minorenni pronunzia provvedimenti ablativi o modificativi della potestà genitoriale; essi possono pertanto essere riuniti.

2. - La Corte d’appello di Torino propone varie questioni di legittimità costituzionale, divisibili in tre gruppi.

3. - Al primo gruppo appartiene anzitutto la questione concernente il combinato disposto degli artt. 739, secondo comma, e 136 del codice di procedura civile, nella parte in cui - secondo un asserito diritto vivente risultante dall’interpretazione accolta dal Tribunale che ha deciso in primo grado - prevederebbe la comunicazione del decreto del tribunale con la forma abbreviata del biglietto di cancelleria, anziché la notificazione mediante consegna al destinatario di copia conforme all’originale nelle forme dell’art. 137 cod. proc. civ..

Secondo il giudice rimettente, tale normativa viola l’art. 2 della Costituzione (il parametro è indicato solo in dispositivo, senza alcuna motivazione), l’art. 3, primo comma, Cost. (per irragionevolezza, in quanto dalla comunicazione del solo dispositivo decorre il termine di dieci giorni per proporre reclamo, in vista del quale il provvedimento dovrebbe essere conosciuto nella sua interezza; e per ingiustificata disparità di trattamento rispetto a situazioni sostanzialmente simili, come la notificazione integrale del decreto o della sentenza di adottabilità ex artt. 15, terzo comma, 16, secondo comma, e 17, terzo comma, della legge 4 maggio 1983, n. 184 (Disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei minori), l’art. 97, primo comma, Cost. (per lesione del principio del buon andamento dell’amministrazione), l’art. 24, secondo comma, Cost. (essendo il termine di dieci giorni per il reclamo tanto breve da ledere il diritto di difesa), l’art. 111, secondo comma, Cost. (per violazione del principio della parità delle parti, in quanto al P.M., a differenza che alla parte privata, il provvedimento è comunicato integralmente), l’art. 111, sesto comma, Cost. (in quanto la conoscenza del solo dispositivo, e non anche della motivazione, si spiega unicamente ove sia prevista, come per le sentenze, una successiva notifica a cura della parte più diligente).

Anche la seconda questione del primo gruppo è prospettata - in riferimento agli stessi parametri - nei confronti del combinato disposto degli artt. 739, secondo comma, e 741 cod. proc. civ., considerato nella parte in cui prevede che nei procedimenti camerali in esame il termine di dieci giorni per proporre reclamo decorra dalla comunicazione del decreto con la forma abbreviata del biglietto di cancelleria, anziché dalla notificazione nelle forme dell’art. 137 cod. proc. civ..

4. - Le due questioni - delle quali la seconda si pone rispetto alla prima in rapporto di dipendenza - possono essere esaminate congiuntamente.

Esse sono inammissibili.

La Corte di appello - pur dichiarando di considerare i procedimenti ablativi o modificativi della potestà genitoriale come <<bilaterali o plurilaterali>>, e quindi soggetti all’art. 739, secondo comma, cod. proc. civ., che per il provvedimento camerale <<dato nei confronti di più parti>> prevede la notifica (e non la comunicazione con biglietto di cancelleria), e pur riconoscendo di avere sovente applicato tali principi - ritiene di non poter decidere in questo senso il caso di specie, per il contrario <<diritto vivente>> identificato nella <<prassi>> seguita dai tribunali per i minorenni ed in specie da quello che ha pronunciato il provvedimento reclamato.

La rimettente, pertanto, non propone una questione di legittimità costituzionale, ma un mero dubbio interpretativo; e per di più rinunzia a ricercare la possibilità di interpretare la norma impugnata nel senso utile ad evitare quello che, secondo la sua prospettazione, è il contrasto con la Costituzione, pur mostrando di conoscere le argomentazioni letterali e sistematiche che tale interpretazione potrebbero sorreggere.

5. - Il secondo gruppo di questioni prospetta tre profili di incostituzionalità dell’art. 336, secondo comma, cod. civ., che disciplina la forma ordinaria del procedimento ablativo o modificativo della potestà genitoriale.

La norma è anzitutto impugnata nella parte in cui - disponendo che <<nei casi in cui il provvedimento è chiesto contro il genitore, questi deve essere sentito>> - non prevede che sia sentito anche l’altro genitore, così violando l’art. 3, primo comma, Cost. (per lesione del principio di eguaglianza fra i genitori e per irragionevole disparità di trattamento rispetto alla disciplina dell’art. 10, quinto comma, della legge n. 184 del 1983, che, per i procedimenti limitativi o sospensivi della potestà nel corso del procedimento di adottabilità, prevede l’audizione di entrambi i genitori e del tutore), l’art. 24, secondo comma, Cost. (per lesione del diritto di difesa del genitore non sentito, e quindi <<neppure informato della procedura>>), l’art. 30, primo comma, Cost. (in quanto ad un genitore è preclusa la possibilità di intervenire nel procedimento relativo ai doveri e ai diritti dell’altro in tema di mantenimento, istruzione ed educazione dei figli), l’art. 111, primo e secondo comma, Cost. (perché è escluso il contraddittorio tra genitori in condizioni di parità, davanti ad un giudice terzo ed imparziale), l’art. 18, comma 1, della Convenzione sui diritti del fanciullo stipulata a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva in Italia con la legge 27 maggio 1991, n. 176 (Ratifica ed esecuzione della convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989), che impegna lo Stato a sancire la comune responsabilità dei genitori per l’educazione e lo sviluppo del fanciullo, onde entrambi devono essere sentiti nel procedimento limitativo della potestà di uno di essi.

6. - La questione non è fondata, in quanto muove da un presupposto interpretativo erroneo.

Il mancato rispetto del contraddittorio nei confronti del genitore diverso da quello contro cui il provvedimento è richiesto viene denunciato essenzialmente in relazione al suo diritto a partecipare al procedimento già instaurato, ma - come emerge dall’accenno al genitore <<non informato>> - non manca un riferimento alla fase dell’instaurazione.

Sotto quest'ultimo aspetto, la prospettazione contraddice la stessa qualificazione del procedimento in esame come <<bilaterale o plurilaterale>>, che il rimettente afferma di condividere e che comporta necessariamente la garanzia del contraddittorio, inteso come diritto di ciascuna delle parti ad essere tempestivamente informata del procedimento.

Del resto l’impugnato art. 336, secondo comma - secondo cui il tribunale provvede in camera di consiglio - va letto alla luce del principio generale per cui anche il procedimento camerale è ispirato al rispetto del contraddittorio (sentenza n. 103 del 1985), nei sensi indicati.

Per quanto poi specificamente concerne il contraddittorio come diritto di partecipare allo svolgersi del procedimento, ed in particolare a quella specifica attività istruttoria che è l’audizione ad opera del giudice, il rimettente - pur richiamandosi alla Convenzione sui diritti del fanciullo resa esecutiva con legge n. 176 del 1991, e quindi dotata di efficacia imperativa nell’ordinamento interno - non considera che l’art. 9, comma 2, di essa (ai sensi del quale tutte le parti interessate devono avere la possibilità di partecipare alle deliberazioni e far conoscere le proprie opinioni) pone una disciplina complementare rispetto alla previsione della norma impugnata (che prevede solo l’audizione del genitore contro cui il provvedimento è richiesto), onde dal coordinamento fra le due norme deriva, allo stato dell’evoluzione legislativa, che nel procedimento in esame devono essere sentiti entrambi i genitori.

Della fondatezza di queste conclusioni fornisce recente conferma l’art. 37, comma 3, della legge 26 aprile 2001, n. 149 (Modifiche alla legge 4 maggio 1983, n. 184, recante "Disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei minori, nonché al titolo VIII del libro primo del codice civile"), sopravvenuta all’ordinanza di rimessione, anche se non ancora efficace. La norma ha aggiunto nell’art. 336 cod. civ. un quarto comma, ai sensi del quale <<Per i provvedimenti di cui ai commi precedenti, i genitori e il minore sono assistiti da un difensore, anche a spese dello Stato nei casi previsti dalla legge>>: ed è evidente come essa presupponga che entrambi i genitori (ed il minore) siano "parti" del procedimento di cui all’art. 336 cod. civ., e in quanto "parti" abbiano diritto di avere notizia del procedimento e di parteciparvi.

7. - L’art. 336, secondo comma, cod. civ., è poi impugnato per la mancata previsione che, nei procedimenti camerali in esame, siano sentiti il minore ultradodicenne e, se opportuno, anche quello di età inferiore, o altrimenti i suoi genitori o il tutore.

Ne risulterebbero violati gli artt. 2 e 31, secondo comma, Cost. (di cui è espressione l’art. 12, comma 2, della citata Convenzione, sull’ascolto del minore in ogni procedura giudiziaria e amministrativa), gli artt. 3, primo e secondo comma, Cost. (sotto il profilo sia dell’irragionevolezza, sia della disparità di trattamento rispetto alla procedura di adottabilità, per la quale l’art. 10, secondo e quarto comma, della legge n. 184 del 1983 dispone che il tribunale per i minorenni, prima di assumere provvedimenti temporanei nell’interesse del minore, deve, salvo il caso di urgente necessità, sentire il minore dodicenne e, se opportuno, quello di età inferiore), e l’art. 111, primo e secondo comma, Cost. (<<non essendovi un giusto processo>> se il minore non venga sentito, direttamente o tramite un rappresentante).

8. - La questione non è fondata, in quanto muove ancora una volta da una premessa interpretativa erronea.

L’art. 12 della citata Convenzione - disposto al comma 1 che il fanciullo capace di discernimento ha diritto di esprimere liberamente la sua opinione su ogni questione che lo interessa - soggiunge al comma 2 che <<A tal fine, si darà in particolare al fanciullo la possibilità di essere ascoltato in ogni procedura giudiziaria o amministrativa che lo concerne, sia direttamente, sia tramite un rappresentante o un organo appropriato, in maniera compatibile con le regole di procedura della legislazione nazionale>>.

Tale prescrizione, ormai entrata nell’ordinamento, è idonea ad integrare - ove necessario - la disciplina dell’art. 336, secondo comma, cod. civ., nel senso di configurare il minore come <<parte>> del procedimento, con la necessità del contraddittorio nei suoi confronti, se del caso previa nomina di un curatore speciale ai sensi dell’art. 78 cod. proc. civ. (cfr. ordinanza n. 528 del 2000).

Ed è ancora una volta rilevante il richiamo alla recente legge n. 149 del 2001, dalla quale - come già notato al n. 7 - chiaramente si evince l’attribuzione al minore (nonché ai genitori) della qualità di parte, con tutte le conseguenti implicazioni.

9. - Infine l’art. 336, secondo comma, cod. civ. è impugnato in quanto non prevede <<a pena di nullità rilevabile d’ufficio che i genitori e il minore che abbia compiuto gli anni dodici siano sentiti>>.

Tale mancata previsione violerebbe gli artt. 2, 3, secondo comma, 24, secondo comma, 30, primo comma e 111, primo e secondo comma, Cost., poichè il principio del contraddittorio ex art. 111 Cost. vale anche per i procedimenti camerali ablativi o limitativi della potestà e la sua inosservanza impone la previsione di nullità.

La questione, in quanto dipendente dalle precedenti, resta assorbita, pur dovendosi rilevare che compete al rimettente stabilire, applicando le norme generali sulle nullità processuali civili, quali conseguenze esplichi sul provvedimento reclamato l’inosservanza dell’art. 336, secondo comma, interpretato nel senso sopra precisato.

10. - Il terzo gruppo di questioni proposte dalla Corte d’appello di Torino concerne - sotto tre distinti profili - l’art. 336, terzo comma, cod. civ., secondo cui <<In caso di urgente necessità il tribunale può adottare, anche d’ufficio, provvedimenti temporanei nell’interesse del figlio>>.

11. - La norma è anzitutto impugnata per la parte in cui non prevede che il provvedimento temporaneo assunto in caso di urgente necessità nell’interesse del minore (senza l’audizione dei genitori e del minore che abbia compiuto dodici anni) abbia, a pena di nullità, una durata massima, individuabile in trenta giorni.

Secondo il giudice rimettente, questa mancata previsione viola l’art. 3, primo comma, Cost. (per ingiustificata disparità di trattamento rispetto ai provvedimenti urgenti di limitazione o sospensione della potestà nel corso del procedimento di adottabilità, che l’art. 10, terzo comma, della legge n. 184 del 1983 considera implicitamente temporanei, prevedendo l’intervento entro un mese del decreto di conferma, modifica o revoca), e gli artt. 24, secondo comma, e 111, primo e secondo comma, Cost. (perché un provvedimento urgente di durata illimitata vanifica il diritto di difesa ed il contraddittorio nella fase processuale successiva).

In secondo luogo, la norma è impugnata in quanto non prevede che il tribunale per i minorenni, dopo avere provveduto in via di urgenza senza sentire genitori e minore ultradodicenne, debba entro trenta giorni, a pena di decadenza, provvedere in contraddittorio per confermare, modificare o revocare il provvedimento.

Ad avviso della Corte rimettente, tale mancata previsione viola l’art. 3, primo comma, Cost. (per irragionevole disparità di trattamento rispetto alla disciplina del procedimento di adottabilità di cui al citato art. 10 della legge n. 184 del 1983), e gli artt. 24, secondo comma, e 111, primo e secondo comma, Cost. (per lesione dei diritti di difesa e del contraddittorio).

12. - Le due questioni sono inammissibili.

Il giudice a quo - pur dubitando che la disciplina del procedimento urgente in materia di potestà genitoriale, di cui al terzo comma dell’art. 336 cod. civ., sia conforme ai parametri evocati - non ha valutato la possibilità di dare della norma impugnata un’interpretazione idonea a porla al riparo dai dubbi di legittimità costituzionale sottoposti al giudizio di questa Corte. In particolare, non ha verificato se - come pure si è sostenuto in giurisprudenza e in dottrina - il procedimento in esame, attesa la sua natura <<cautelare>> rispetto a quello <<ordinario>> di cui al secondo comma del medesimo art. 336 cod. civ., non possa ritenersi assoggettato alla disciplina del procedimento cautelare uniforme dettata dagli artt. 669-bis e ss. cod. proc. civ. (applicabile, in quanto compatibile, a tutti i provvedimenti cautelari previsti dal codice civile: art. 669-quaterdecies), con la conseguenza che anche il provvedimento urgente previsto dalla norma impugnata dovrebbe ritenersi regolato dal secondo e dal terzo comma dell’art. 669-sexies.

Il silenzio sul punto dà luogo ad un difetto di motivazione dell’ordinanza.

13. - Sotto un terzo profilo l’art. 336, terzo comma, cod. civ. è impugnato in quanto - non prevedendo la nullità rilevabile d’ufficio del provvedimento temporaneo emanato in difetto del presupposto dell’urgente necessità - consentirebbe al tribunale per i minorenni di adottare provvedimenti temporanei senza sentire i genitori ed il minorenne ultradodicenne, così violando l’art. 24, secondo comma, Cost. (per il sacrificio del diritto di difesa dei soggetti che dovevano essere sentiti), l’art. 111, primo e secondo comma, Cost. (per la lesione del diritto di questi soggetti al giusto processo), e infine il diritto di ascolto del minore, garantito dall’art. 9, comma 2, della citata Convenzione sui diritti del fanciullo.

14. - La questione - indipendentemente dalle implicazioni desumibili dai rilievi di cui al n. 12 - è inammissibile, non ponendo un problema di legittimità costituzionale, ma di mera interpretazione.

Infatti - poiché l’art. 336, terzo comma, cod. civ. prevede la possibilità di adottare provvedimenti temporanei solo in caso di <<urgente necessità>> - la questione se il difetto di tale requisito comporti o meno nullità attiene all’interpretazione della norma impugnata, alla luce dell’art. 156 cod. proc. civ., che spetta al giudice a quo.

15. - La Corte di appello di Genova impugna gli artt. 737, 738 e 739 cod. proc. civ., e l’art. 336 cod. civ., in quanto rendono applicabile il rito camerale ai procedimenti aventi ad oggetto l’affidamento dei minori nel caso di conflitto fra genitori non uniti in matrimonio e, più in generale, ai procedimenti limitativi od ablativi della potestà genitoriale.

Il giudice rimettente - premesso che tali procedimenti mirano alla risoluzione di conflitti fra genitori esercenti la potestà e quindi incidono sulle loro posizioni soggettive, aventi rango di veri e propri diritti, meritevoli di tutela al pari di quelli del minore - ritiene che l’applicabilità del rito camerale violi l’art. 111 Cost., in relazione al principio per cui il <<giusto processo>> deve essere regolato dalla legge, per l’assenza in quel rito di una precisa e puntuale disciplina dei poteri del giudice e delle parti, cui non potrebbe ovviare un’interpretazione adeguatrice ex art. 24 Cost., che lascerebbe aperta la via a prassi applicative difformi per ogni ufficio giudiziario, onde il giudice del reclamo non potrebbe né sanzionare con la rimessione al primo giudice la violazione in primo grado <<di regole di garanzia per la difesa>>, né <<stabilire con certezza gli effetti della nullità di singoli atti>>.

16.- La questione è inammissibile.

Il giudice rimettente - il quale afferma esplicitamente che la normativa impugnata non è suscettibile di essere interpretata in senso conforme a Costituzione - non motiva adeguatamente le ragioni di tale suo convincimento.

Quanto alle eventuali prassi distorsive, esse si risolverebbero in errori cui rimedierebbe in sede di reclamo il controllo dei provvedimenti emessi in prima istanza (come del resto fa la stessa ordinanza per la prassi della secretazione delle relazioni dei servizi sociali, riguardo alla quale esplicitamente individua la norma che la vieta).

D’altro canto, la tesi dell’impossibilità, per il giudice del reclamo, di sanzionare con la rimessione del procedimento al primo giudice la violazione di regole poste a garanzia del diritto di difesa verificatesi in primo grado, non considera che, nell’ordinamento processuale civile, la rimessione al primo giudice è fenomeno limitato ai casi previsti dagli artt. 353 e 354 cod. proc. civ., onde corrisponde ai principi che il giudice del reclamo, constatata una violazione in prima istanza delle regole del contraddittorio o del diritto di difesa non riconducibile ai casi di rimessione espressamente previsti, adotti una nuova decisione rispettosa di quelle regole.

Infine, la tesi dell’impossibilità per il giudice del reclamo di stabilire con certezza la nullità di singoli atti postula un sistema di nullità degli atti del processo civile necessariamente correlato a specifiche previsioni normative, e perciò diverso da quello in vigore, così come risulta dal secondo e terzo comma dell’art. 156 cod. proc. civ..

Dalla rilevata insufficienza di motivazione discende l’inammissibilità della questione.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 739, secondo comma, e 136 e del combinato disposto degli artt. 739, secondo comma, e 741 del codice di procedura civile, sollevate dalla Corte d’appello di Torino, sezione per i minori, in riferimento agli artt. 2, 3, primo comma, 24, secondo comma, 97, primo comma, e 111, secondo e sesto comma, della Costituzione, con l’ordinanza indicata in epigrafe;

dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 336, secondo comma, del codice civile, sollevate dalla Corte d’appello di Torino, sezione per i minorenni, in riferimento agli artt. 3, primo e secondo comma, 24, secondo comma, 30, primo comma, 31, secondo comma, e 111, primo e secondo comma, della Costituzione, con l’ordinanza indicata in epigrafe;

dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 336, terzo comma, del codice civile, sollevate dalla Corte d’appello di Torino, sezione per i minorenni, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 24, secondo comma, 111, primo e secondo comma, della Costituzione, con l’ordinanza indicata in epigrafe;

dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale degli artt. 737, 738 e 739 del codice di procedura civile e 336 del codice civile, sollevata dalla Corte d’appello di Genova, sezione per i minorenni, in riferimento all’art. 111 della Costituzione, con l’ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 16 gennaio 2002.

F.to:

Cesare RUPERTO, Presidente

Franco BILE, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 30 gennaio 2002.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA

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